ORVIETO

ORVIETO

La luce diffusa del mattino, piena, senza incertezze. Rive, sabbia e acqua trasparente, visioni nitide. E selvagge campagne laziali, vive impressioni dal vero, fino a sentire il silenzio estivo dei campi, il canto dei grilli, il frullo dei passeri, l’aria salmastra. La pittura di Giulio Aristide Sartorio (Roma, 1860 - 1932) è arte serena, gioioso inno alla vita, energia positiva catturata e restituita sperimentando tutte le tecniche possibili.
Pittore, scultore (come il nonno Gerolamo e il padre Raffaele), grafico amante dei codici miniati, critico d’arte, scrittore, fotografo e appassionato di cinema, l’eclettico Sartorio viene celebrato fino al 18 luglio a Orvieto, a Palazzo Coelli, con la mostra «Giulio Aristide Sartorio - Il Realismo plastico tra Sentimento e Intelletto». Settanta le opere esposte (delle quali venti inedite), a illustrare un intero percorso. Si tratta di pastelli della campagna romana, di alcuni paesaggi dipinti a olio per fissare nella memoria le immagini dei viaggi in Oriente, e di un bellissimo olio su cartone del 1918, il Trasporto funebre sull’Adamello, realizzato alla fine della Prima Guerra mondiale, che vide l’artista arruolarsi volontario a cinquantacinque anni come sottotenente delle guide a cavallo.
Nel 1916, al tempo dell’internamento nel campo di prigionia di Mauthausen, Sartorio scrisse una sorta di autobiografia in forma romanzata, La favola di Sansonetto Santapupa, che racconta la sua vita dalla nascita all’esposizione romana del 1883, data dell’esordio ufficiale. Favola narrata con una buona dose di ironia e con il coraggio di chi si affida al racconto di infanzia e giovinezza per superare il disagio della prigionia, il dolore fisico delle ferite e la fatica della distanza. «Santa Pupa - spiega e scherza Sartorio - nel calendario burlesco dei romani è protettrice della gente ardimentosa», di quelli che non si danno mai per vinti e raccontano la vita, con i pennelli o le parole, come fosse un eterno mattino.
Alba, mezzogiorno e tramonto sul Tevere, osservato nelle varie condizioni di luce, immortalato a Fiumicino nel 1914, con i raggi del sole, chiarissimi, che spuntano da una nuvola irradiata e illuminano uno stormo di gabbiani candidi che volano ancora nella semioscurità. E La messa nei campi, dove il cielo è annullato dalla luce e a dominare è il giallo invadente del grano maturo. Lirica dichiarazione d’amore alla terra, fino ad arrivare al periodo di Fregene (fine anni Venti), al chiarore accecante di figure familiari e acqua, abbracci materni e rotonde nudità infantili.
Sartorio ama la sua campagna, uno «stato d’animo», un «luogo santo», come lo chiama lui, ama il mare del Lazio, cantato da Omero e Virgilio. E ama pure viaggiare e catturare altre luci, quella dorata della Veduta di Damasco e quella verde azzurra de La piana di Beirut.
GAS (spesso si firmava così) si dedica anche alle illustrazioni di romanzi. Nel 1890 crea i disegni per Cuore di De Amicis e poi penserà a L’Invincibile di Gabriele D’Annunzio, uscito a puntate sulla Tribuna illustrata. E D’Annunzio si ispirò a Sartorio per il personaggio di Andrea Sperelli, il protagonista de Il piacere. Gabriele e Giulio si conobbero davanti all’Adriatico, presentati dall’amico comune Francesco Paolo Michetti, abilissimo ritrattista, cantore (sulla tela) delle genti d’Abruzzo, la «guida indimenticabile», come lo chiama Sartorio, colui che portò con sé il pittore romano a Parigi per l’Esposizione del 1889.


I due pittori si incontrarono per la prima volta a Frosinone, durante una gita ciociara (Giulio amava la Ciociaria, terra di sua madre, nata a Ferentino), e scoprì che Michetti aveva la sua stessa idea di arte, «amava la pittura quale strumento attivo per sedurre le genti e godere intensamente, spiritualmente la vita».

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