Ottanta razze in un quartiere «Pioltello? Ormai è una Babele»

«Ma le hai contate le parabole?». Carlos alza lo sguardo e indica una distesa di antenne che spuntano dai balconi del palazzo accanto. Saranno un centinaio, forse di più. Mai viste così tante in così poco spazio. Una per ogni nazionalità, una per ogni etnia che vive qui, nel quartiere Satellite di Pioltello. La piccola Babele della Lombardia è a sette chilometri da Milano, settemila stranieri su 34mila abitanti, di cui seimila concentrati in questo fazzoletto di città, grande appena un paio di isolati. Ne trovi quanti ne vuoi: marocchini, slavi, romeni, albanesi, arabi, cingalesi, africani, peruviani. Ci saranno almeno un’ottantina di razze e trenta ceppi culturali che si spartiscono lo spazio di qualche chilometro.
L’odore del loro Paese arriva dai negozi di alimentari, dai frutti nelle cassette delle bancarelle e dalla carne che hanno appeso nelle macellerie. Il suono degli idiomi si sente passando accanto ai tavolini di un bar o all’incrocio tra via Mozart e via Cimarosa, una musica sempre diversa. In questo scampolo di umanità, fatto di uomini, donne, bambini, un po’ regolari, un po’ abusivi, gli unici che non si incrociano quasi mai sono gli italiani. Quelli che un tempo erano migrati dal Sud Italia in cerca di fortuna e lavoro e che ora sono spariti, quasi tutti. Colpa dei nuovi immigrati, dicono i più arrabbiati, che gli hanno fatto perdere il lavoro, il sonno e la tranquillità. E pensare che il Satellite era nato proprio per loro, come un borgo per meridionali. «E si stava bene. Negli anni ’70 poi ci hanno messo quelli del “soggiorno obbligato” e quando le cose si stavano sistemando sono arrivati gli zulù». Marco, il barbiere, preferisce farsi chiamare Pippo e preferisce chiamare gli stranieri a modo suo, un po’ più colorito. «Non è che si sta male, il problema è che non ci sono regole. Che loro non le rispettano». Gli uomini iniziano a bere verso le cinque e mezza del pomeriggio, e basta una parola detta male per far scoppiare una rissa che finisce a bottigliate, pugni e sangue. Il venerdì e il sabato sono i giorni peggiori. «Lo scriva che oggi sono passate due volte le pattuglie dei vigili solo perché c’eravate voi. Qui mica si tratta di essere razzisti: chi ha investito in un’attività, ha perso tutto perché ora non vale più niente», sbotta Leo, proprietario di un bar. E però è anche colpa degli italiani che se ne sono andati quando hanno visto arrivare gli extracomunitari, buoni e cattivi non ha importanza, da allora la situazione è andata a rotoli. A Pioltello, nel comune governato dal centrosinistra, la fregatura è che la gente scappa. Le agenzie immobiliari hanno sfruttato la situazione pagando le case degli italiani meno del loro valore commerciale, dicono i ben informati. «Hanno fatto la cresta e quando c’è stato il boom le hanno rivendute agli stranieri. Tanto loro ci abitano in dieci, venti e ammortizzano le spese». Due locali te li porti via con 60mila euro e un appartamento costa 700 euro al mese di affitto; i cartelli fuori dai palazzi con la scritta affittasi o vendesi sono quasi come le parabole, tantissimi. Ciro sfrega due dita come se tenesse una banconota in mano, in fondo è tutta una questione di soldi. «Mi sento più straniero di loro qui. Ci abito da otto anni, ma appena posso me ne andrò». Certo, la moglie non è molto contenta di dover ricominciare tutto da capo, dal mutuo per una nuova casa, un altro trasloco e magari la ricerca di un altro lavoro. «Ma è meglio così. Ho un figlio e cosa ne so di come può venire su in questo ambiente. Farlo crescere qui, non mi fido. Per ora, non è mai accaduto niente. Sto a casa, mi chiudo dentro. Ma può capitare il giorno in cui dai una spallata a quello sbagliato e magari ti tira fuori un coltello». Guai però a pensare che tutti gli stranieri sono delinquenti. Ci sono italiani che sono peggio di loro, giura Ciro. E invece ci sono immigrati che tanto di cappello, eccellenti, niente da dire.
«Insomma, è giusto dare i permessi. Ma non così concentrati. Qui nella via c’erano già tre macellerie, una per ogni etnia e adesso aprirà la quarta». Massimo ha un grembiule bordeaux con una scritta ricamata in nero, «L’arte della carne».

Dice di aver perso clienti e lavoro, da lui vanno solo gli italiani. E sono pochi, ormai. Dall’altro lato della strada, due cingalesi si affacciano alla finestra. «Where are you from?». Milano. «Italiani? No, non ci credo».

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