Paesi islamici: il filo rosso del terrorismo

Il fondamentalismo dal 1914 ai giorni nostri per sfatare il mito dell’Islam «di pace»

È cominciata con la prima guerra mondiale, quando per il mondo iniziava quel secolo lungo che è stato il Novecento e che non è ancora finito. Mentre dalla Russia agli Stati Uniti, dall’impero austroungarico a quello tedesco, chiunque combatteva per qualsiasi motivo - la patria, l’egemonia, il denaro, qualsiasi motivo tranne il Dio che, in Occidente, era già morto - loro avevano iniziato una specifica crociata: «Nel nome dell’Islam i fedeli, soldati e sudditi, furono spinti alla guerra di religione contro i nemici cristiani». La guerra fu persa, l’impero ottomano si frantumò: ma ciò che per gli altri vinti fu solo una sconfitta in una pagina della storia, per i musulmani fu un altro capitolo, doloroso, della secolare «guerra di civiltà» contro gli infedeli. E non è un caso se lo stesso Osama bin Laden, nel primo messaggio dell’ottobre 2001, subito dopo l’attacco alle Torri Gemelle, parla di un’oppressione che dura da ottant’anni.
Dopo la prima, la seconda guerra mondiale: di nuovo, un’altra crociata, questa volta oltre e più che contro i cristiani, contro gli ebrei e i sionisti già nemici nella terra promessa: e ancora, l’attrazione fatale del Gran Muftì di Gerusalemme per Mussolini e Hitler, la falsa epopea del connubio tra la mezzaluna e la croce uncinata che fu, in realtà, un’alleanza politica finita male. Quindi, la nascita di Israele, visto subito come un tumore nel corpo della nazione araba eletta, da estirpare con ogni mezzo e contro ogni ragione storica: perché, al di là delle menzogne con cui il politicamente corretto e il falsamente storico cambia da decenni le carte in tavola, furono i Paesi arabi a rifiutare quella soluzione dei due Stati in una terra che oggi invocano, accecati dal desiderio e dall’illusione di poter eliminare, per sempre, il tumore ebreo.
In Il libro nero dei regimi islamici - 1914/2006 oppressione, fondamentalismo, terrore (Rizzoli, pagg. 455, euro 19), Carlo Panella ricostruisce novant’anni di terrorismo e di Jihad e, sfatando le ipocrisie di tante anime belle che si nascondono dietro il fantasma di un islamismo pacifico, quasi gandhiano, costretto a prendere la armi dall’Occidente brutto e cattivo, dimostra, documenti alla mano, come dalla prima guerra mondiale a Bin Laden, passando per i Fratelli Musulmani e lo wahhabismo che, alimentato dai petrodollari, ha infiammato l’estremismo arabo, giungendo alla rivoluzione khomeinista, ci sia un lungo filo rosso che si nutre nella pretesa dell’Islam di essere la nazione eletta, l’unica. E che rovescia la prospettiva etica e teleologica: «Nella visione di Khomeini e dei suoi proseliti, l’uomo sente la voce della divinità che gli intima di tagliare la gola del figlio, ma non sente la voce di Dio che ordina di risparmiare la vita a Isacco e, se la sente, la ignora. Abramo taglia la gola a Isacco, l’uomo sacrifica l’uomo a Dio: questo è l’archetipo che l’Islam oggi ricopre e impone».
Prendiamo la Dichiarazione islamica universale dei diritti dell’uomo, la versione musulmana di ciò che, duecento anni prima, erano state le dichiarazioni universali delle rivoluzioni americane e francesi su cui si fonda la modernità o, se non si vuole andare troppo indietro, la dichiarazione dei diritti dell’uomo dell’Onu: «Già nelle prime frasi viene affermata la superiorità dell’islamismo su tutte le altre fedi, religione e ideologie e la sua funzione di guida dell’umanità confusa», superiorità che si afferma nell'articolo 10 che recita: «L’Islam è una religione intrinsecamente connaturata all’essere umano. È proibito esercitare qualsiasi forma di violenza sull’uomo o sfruttare la sua povertà o ignoranza al fine di convertirlo a un’altra religione o all’ateismo».
E per fare ciò, ogni mezzo è lecito, soprattutto quando il mezzo di lotta diventa il fine religioso da raggiungere: «Il martirio islamico non è infatti solo una forma di lotta, una tecnica particolarmente efficace di combattimento contro un nemico sovrastante per forze. Esso nacque, si giustificò e si impose come parte integrante di una visione finalistica del mondo. Non c’è martirio se non dentro il Jihad, e non c’è Jihad senza la sharia, l’applicazione della legge coranica nel dar al Islam, nel territorio dell’Islam».
Se il Jihad è il fulcro dell’Islam politico di oggi ed esclude il laicismo, è chiaro che poco spazio resta ai moderati e alla democrazia, tanto più se, con il pretesto della religione, spesso il potere politico ha compiuto i suoi giochi e le sue vendette: non è un caso che negli ultimi decenni oltre un milione di musulmani sono stati ammazzati da altri fratelli musulmani, e ben lo sanno i poveri palestinesi.

La conclusione è realisticamente disperata: «Un’isteria totalitaria e violenta si è radicata dentro una delle religioni del Libro. Come contrastarla è il tema della questione islamica oggi: un problema non solo per l’Occidente e la cristianità minacciati, ma innanzitutto per quei musulmani che ancora credono nell’Islam quale religione di pace».

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