Pane, orti e gloriose osterie Storia della «città cuccagna»

Pane, orti e gloriose osterie Storia della «città cuccagna»

Aneddotica vuole che il signore di Verona Cangrande della Scala, a Milano per l’incoronazione di Lodovico il Bavaro, scelse un modo infingardo quanto inefficace per umiliare il cugino Gian Galeazzo: acquistare in blocco tutto il ben di Dio del celebre mercato del Verziere per lasciare a becco asciutto le cucine ducali. Affronto velleitario dal momento che il fecondissimo contado milanese continuò - per giorni e giorni e senza smettere - a rimpinguare di frutta, ortaggi e selvaggina il cuore pulsante dell’agroalimentare meneghino: el Vergei, appunto, mercatissimo declamato dal Porta che fin dall’alto medioevo si dispiegava brulicante di anime e commercio ai piedi dell’Arcivescovado. È soltanto uno dei tanti episodi raccontati in un interessante saggio di Lucia Bisi e intitolato «Nutrire Milano, storia e paesaggio dell’alimentazione in città» (Skira, pag. 167), pubblicato in questi giorni. Un titolo che, inevitabilmente e non a caso, ci conduce al tema nobile di «Expo 2015» compiendo un viaggio a ritroso per recuperare, tra documenti storici e un ricco racconto di stampe, un «paesaggio alimentare» la cui identità è iscritta nelle peculiarità di una città che, diceva Cattaneo, «è in mezzo a terre ma acquatica, tra immense ortaglie ma copiosissima di pesce». Già, l’acqua, un elemento chiave intortno al quale si sarebbero giocati nei secoli i destini della vita alimentare (e non solo) di una Mediolanum da sempre celebre - grazie alla fitta rete di canali - per l’abbondanza delle sue derrate e anche di mercati, caso unico nella penisola. «In quasi tutte le piazze - rammenta una notizia del 1632 di Andrea Scoto - si vendono quei prodotti consumati quotidianamente ma se nell’altre città si ritrovano due o tre piazze al più, a Milano ve ne sono cento, delle quali sono 21 le principali che ogni quattro giorni sono ripiene delle sopraddette robbe».
Il saggio rammenta le contrade e le vie che conservano il nome dei generi alimentari a cui erano dedicate: dei Bergamini, delle Erbe, degli Ortolani, del Fieno eccetera. Una toponomastica organizzata sin dal Medioevo e che vedeva le aree deputate al commercio di prodotti commestibili principalmente concentrate nel comprensorio tra la cattedrale e il Palazzo comunale. Al Broletto erano le pescherie «del pesce minuto e del pesce grosso», il mercato dei gamberi e le pollerie davanti alla chiesa di Santa Tecla, mentre i Fruttaroli erano ubicati nella contrada delle Quattro Marie ovvero dietro al camposanto (via Pattari). Fra Tre e Quattrocento, foraggi, fieno e paglia si smerciavano nello spiazzo dietro la Porta Comasina, le carni al minuto nel Camposanto del Duomo e in piazza Fontana; bestiame e cavalli a Porta Vercellina, alla Pusterla delle Azze, poi al mercato di Porta Ticinese.
Ma, oltre che delle derrate, Milano fu nei secoli anche la patria di «gloriose osterie», come ben ricordò Alberto Savinio nel suo «Ascolto il tuo cuore, città», nonchè della polpetta, i celebri mondeghili che, assieme alla polenta, furono i simboli dell’alimentazione lombarda. «Se si potesse raccogliere tutte le polpette che ho mangiato in vita mia, vi sarebbe da selciare la città da piazza Duomo fino al Dazio di Porta orientale», avrebbe esclamato un aristocratico secondo i racconti di Piero camporesi. Grande abbondanza, dicevamo, una città-Cuccagna facilissima da approvvigionare; a un certo punto ribattezzata «Paneropoli», ovvero capitale della panna. Ma sempre attorno all’urbanistica e all’acqua si giocò anche la trasformazione degli ultimi secoli. Dopo l'Unità d'Italia nel 1861 - rammenta il libro della Bisi - il connubio città-campagna viene incrinato per un diverso assetto urbano, scompaiono gli orti tra le mura, soppiantati da nuovi edifici, il treno sostituisce le linee d'acqua.

Fino allo stravolgimento del 1928-30, quando i Navigli verranno coperti per le pressioni degli igienisti e per le nuove esigenze del traffico urbano. «Milano perde così la sua identità, senza più acqua, orti, vigne e verde. E la campagna - conclude amaramente la Bisi- diventò un'officina a cielo aperto».

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