Politica

Pannella, il profeta al capolinea

Era solo venti mesi fa. È l’ultima volta che sei riuscito a guardarlo con gli occhi di un ragazzo. Non era neppure un corpo, ma una voce. La voce di un vecchio. Stava lì, a Palazzo Madama, in quella zona in alto dove le maestre portano gli scolari a vedere i politici. Lassù. E urlava. Marco Pannella bestemmiava contro la democrazia tradita, con quel tono ossessivo, quelle parole che si inseguono e si mangiano l’una con l’altra, quel modo che ha solo lui di caricare d’enfasi le ultime sillabe. La giunta elettorale lo aveva escluso dal Senato. Non aveva abbastanza voti. Ma lui diceva che era una truffa, l’ultima beffa contro la storia dei radicali, l’abuso dei soliti partiti, conteggi sbagliati, rimasugli contraffatti, brogli, magheggi, stupri di verità. E forse ancora una volta aveva ragione lui. Forse. Ma giù, i senatori, lo trattavano come il vecchio folle che entra sbraitando nel bar di paese. Il matto, il solito rompicoglioni, cacciato via dai buttafuori, tra gli sguardi imbarazzati e lividi di pena dei clienti. Gridavano, i senatori: «Pannella, stai zitto», «Vattene», «Ma smettila», «Sei vecchio». E lui continuava, con la democrazia, gli stupri, la verità, l’orgoglio liberale, liberista, libertario. Lo hanno buttato fuori, con lui che diceva: sono un senatore, un senatore della Repubblica.
Sono passati appena venti mesi e tutto ora ricomincia. Oggi Marco e la Bonino entrano in un loft romano di piazza Sant’Anastasia per incontrare i vertici del Pd. Ci vanno come chi si accontenta di un’udienza a corte, con Pannella che dice: «Hanno risposto subito alla nostra richiesta di avere un incontro». Ci vanno con il vestito buono, con la promessa di non fare troppo i laici o i mangiapreti, con il veto della Binetti e Di Pietro e con quella frase di Fassino che odora di disprezzo: Pannella non lo vogliamo, ma la Bonino è benvenuta. Ti prendi la «ragazza», quella presentabile, e chiudi le porte al vecchio logorroico. Troppo facile. Fortuna che Emma, l’unica che il Crono gandiano ha avuto la forza di non cannibalizzare, abbia detto: non tradisco. Emma: la superstite dei discepoli di Giacinto Pannella, detto Marco. È lei la sposa non più giovane che assiste l’uomo troppo vecchio. Comunque vada a finire questa storia, Pannella non merita l’elemosina. Non la merita perché è stato più grande di tutti loro. Lui che ha visto il futuro e lo ha raccontato. Lui che non ha mai riscritto la sua storia, che ha cambiato nome al partito per ansia di nuove battaglie o, al massimo, per specchiarsi nel proprio egocentrismo, ma mai per abiura, per sconfitta, per vergogna, per i tempi scaduti o per le utopie smascherate. In questa Italia che sogna all’americana, con due grandi partiti a duello, Pannella non è il resto, ma il numero primo. È divisibile solo per se stesso.
E allora ti ricordi, ora che chiede un posto come un pezzente, tutto ciò che Pannella è stato. Era il 1984, e lui parlava di rivoltare l’assetto ingessato dei partiti. Erano i tempi della commissione parlamentare Bozzi per le riforme istituzionali. Ricordi le parole di Leonardo Sciascia: «Crescerà una nuova coscienza di opposizione. Questo Paese è affamato di opposizione. Comunisti e democristiani non sono semplici alleati: sono due immagini riflesse, specchi gli uni degli altri. È ora di separare questa complicità reciproca: che ci sia finalmente chi governa da una parte e chi controlla dall’altra». E poi cadde il Muro. I pezzi in frantumi di Berlino erano le macerie del Pci e l’orizzonte di una sinistra diversa. Pannella, le sue idee, il suo liberalismo, avevano vinto. Tutti lo cercavano. Si inginocchiavano. Filippo Ceccarelli, allora, nel 1993, cronista del Palazzo, raccontava: «Adesso i diversi, i reietti, stanno a Montecitorio. Fanno anche pena. Bisogna vedere l’ardore spaventato con cui il dc Culicchia, uno che l’hanno accusato di omicidio, s’avvicina a Pannella: “Marco, Marco”. Bisogna saperlo leggere il sorriso di gratitudine di Bonsignore... l’entusiasmo perduto di un Del Pennino. C’è una nobile coerenza, in questa difesa di gente spaventata, che fino all’altro giorno era più potente di lui. Molti lo ritenevano un pagliaccio. Poco o nulla Pannella ha avuto dalla partitocrazia. Si può permettere anche questo lusso cavalleresco, non privo di pietas».
Il partito radicale era la speranza di un’Italia senza chiese, né guelfa e né ghibellina, non rossa o papalina. Era il sogno di un’Italia senza anomalie, libera dall’ombra del più grande partito comunista d’Occidente. Era il sogno di un partito Democratico vero, senza compromessi storici. Qualche volta pensi che Marco abbia indicato la terra promessa, ha diviso il Mar Rosso e ti ha portato per i sentieri effimeri del deserto. Era una sorta di Mosè, magari con troppi peccati. Ma ora sai che proprio come Mosè, lui, non vedrà mai la terra promessa. Si fermerà al confine, perché con tutto il suo talento visionario, Marco resta un uomo della Prima Repubblica, un ricordo del passato. Lui ha indicato la strada, ma toccherà ad altri spiriti liberali, liberisti e libertari costruire le nuove città. Marco, lascia.

E regalati un Giosuè.
Vittorio Macioce

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