Roma - Il titolo va letto per contrasto, con sottolineatura amarognola, proprio come accadeva per La bella vita. Lì si narravano i giorni vuoti, sempre più desolati e improduttivi, di un operaio cassintegrato dell'Ilva di Piombino. Tredici anni dopo Paolo Virzì fa un altro film sui temi del lavoro, anzi dei nuovi lavori: Tutta la vita davanti. Una frase fatta, da presunta saggezza popolare, usata di solito per rassicurare chi è giovane e avrà tempo per sistemarsi. Il tema è il mondo dei call-center, tra sfruttamento, imbrogli e promesse, con un occhio alla commedia di costume.
Reduce dallo sfortunato N (Io e Napoleone), il quarantaduenne regista livornese torna dunque all'attualità italiana. Doveva essere un piccolo film, quasi sperimentale, in attesa di porre mano all'impegnativo Vita, dal romanzone di Melania Mazzucco, invece strada facendo Tutta la vita davanti ha preso corpo. Se la protagonista è la quasi esordiente Isabella Ragonese, apprezzata in Nuovomondo, attorno a lei spicca un cast di lusso: Sabrina Ferilli, il gettonatissimo Elio Germano, Valerio Mastandrea, Massimo Ghini. Produce la Motorino Amaranto di Virzì con il decisivo contributo di Medusa, che distribuirà. Primo ciak a fine giugno, sceneggiatura, come sempre, scritto insieme al fedele Francesco Bruni.
Il call-center per parlare di flessibilità, contratti a termine, sfruttamento...
«No, soprattutto di persone. Con spirito leggero, senza toni apocalittici o riferimenti alla legge Biagi. L'idea è di raccontare un'odissea burlesca e avventurosa nel mondo di una certa precarietà giovanile. Sull'argomento si sono letti libri e reportage, anche di valore, la tv ha indagato. Il cinema, invece, è sembrato distratto, quasi avesse difficoltà a ritrarre quel pezzo di società».
Il punto di partenza?
«Il libercolo di una ragazza sarda, Michela Murgia, Il mondo deve sapere. Studente in teologia, per guadagnare qualche euro finì a fare l'operatrice di telemarketing a caccia di casalinghe. Siamo partiti da lì, immaginando una venticinquenne laureata in filosofia teoretica, appunto Isabella Ragonese, immersa per necessità in quella specie di caverna di Platone. Sarà un call-center raccontato in chiave fantasmagorica, a tratti grottesca, ma anche realistica. La scoperta di un mondo parallelo che ci sta accanto. La curiosità è socio-antropologica, ma il tema suscita, ai nostri occhi, anche riflessioni di tipo filosofico».
Farete nomi e cognomi?
«No, l'azienda è di fantasia, si occupa di elettrodomestici mirabolanti, per l'esattezza di un robottino chiamato Multiple che dovrebbe svolgere ben quattordici funzioni. La precisione sarà assoluta. Gireremo dentro la nuova Fiera di Roma, una struttura enorme nata nel nulla della campagna romana verso Fiumicino. Una specie di Singapore ribollente di stand, centri espositivi, cartelloni, tra sciami di telefonisti e venditori infoiati. Non so se lei ha mai visitato un call-center, sono posti pazzeschi che danno lavoro, precario, naturalmente sottopagato, con strani contratti, a migliaia di persone. Ventimila solo a Roma».
Non aveva litigato con la Ferilli?
«No, c'eravamo semplicemente persi un po' di vista dopo Ferie d'agosto. A un certo punto lei preferì trasformarsi in icona televisiva e popolare. Ma resta un'attrice di talento, piena di risorse, fisicamente perfetta per il ruolo di una capo telefonista. Germano farà un giovane venditore invasato, crede di avere in mano il proprio destino, invece verrà messo di fronte alla sconfitta. Ghini è una specie di Jerry Fumo, il personaggio di La bella vita, ma meno cialtrone: è il capo carismatico, l'uomo che tutti temono, in realtà un autentico figlio di puttana. Mastandrea il sindacalista della Cgil che prova a difendere i diritti di quei ragazzi ventenni, a conquistarne la fiducia. Loro, invece, lo deridono, lo chiamano "tapiro de coccio". Non gli credono».
Come vede i call-center?
«Sono posti regolati da strane leggi. Lo schema delle assunzioni è da reality show, tra applausi e pianti, con l'aggiunta di tecniche motivazionali all'americana. Insomma, un inferno».
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