Papetti, fughe surreali dalla città

Chiude domani la mostra dell’artista milanese alla galleria Forni: un viaggio mentale nel sistema nervoso delle metropoli

Mimmo Di Marzio

L’architettura e lo spazio come luoghi dell’anima sono il tema suggestivo che permea due grandi mostre di questo primo 2006 milanese: quella che a Palazzo Reale racchiude un centinaio di capolavori storici di Mario Sironi e Constant Permeke; e quella che, negli spazi della Galleria Forni, via Fatebenefratelli 13, ha presentato la più recente produzione dell’artista contemporaneo Alessandro Papetti. La mostra di Papetti, che chiude domani con forte successo di pubblico, offre diversi spunti di riflessione e rappresenta una sorpresa per chi conosce il percorso dell’artista milanese, tra i più affermati nella generazione della nuova pittura italiana.
«Il ventre della città», questo il titolo della personale, è un viaggio attraverso il sistema nervoso della metropoli: Boulevard Saint Germain o corso Buenos Aires? Il dubbio pervade lo spettatore e lo incolla alla tela. Anche perché quelle di Papetti, tradizionalmente più avvezzo alle pulsioni dei corpi e all’angoscia dei volti che al mondo esterno, sembrano istantanee colte da prospettive improbabili e attraverso il parabrezza di un’auto in corsa.
Il paesaggio urbano prende il sopravvento e apparentemente anestetizza il pathos dei suoi lavori precedenti. Di fatto, il ventre della città con le sue fughe surreali, gli edifici monocromi e le auto anonime che sfrecciano appena sbozzate, sembra respirare di una corporeità silenziosa, come se quel paesaggio fosse soltanto il sogno dello scorrere di un tempo indefinito.
È interessante osservare come il tema del paesaggio urbano, pur abbondantemente sviscerato in tutto il Novecento soprattutto dopo il Futurismo, continui a rappresentare una musa irresistibile per gli artisti contemporanei, dalla pittura, alla fotografia al video. Nell’ultima produzione di Papetti, la città assume forme liriche che restituiscono piena dignità a un linguaggio, quella pittura figurativa, troppo spesso definito alle corde dalla critica internazionale.
Le prospettive centrali dei suoi notturni, i viali soffocati dalle albe livide sembrano risucchiare lo sguardo dello spettatore in un vortice dove spazio e tempo si fondono in un viaggio più mentale che reale. Fortemente «papettiane» sono le tonalità brune che conferiscono alle composizioni un’unità tonale sempre graffiata da una gestualità veloce e dominata dal segno.
Ora la gamma di terre, ora i blu oltremare che sprofondano negli abissi del nero, ora le grigie monocromie sono solo momentaneamente interrotte da colpi di colore «altro». Nei suoi paesaggi, tuttavia, l’artista sembra felicemente decidere per un minor indugio descrittivo, abbandonandosi alle impressioni della materia e della luce.
Queste ultime opere rappresentano per certi versi l’evoluzione naturale di un percorso cominciato con il ciclo «Reperti» (1990-92), in cui l’artista immortalava particolari, oggetti o strumenti del suo studio, o fabbriche e cantieri navali abbandonati, sui quali il tempo sembrava aver marcato tracce indelebili.

Da allora in poi la ricerca di Papetti ha iniziato a scendere nelle viscere dell’architettura, in scenari di archeologia industriale ed interni di ville settecentesche, fino a vedute delle strade di Parigi, città nella quale l’artista ha vissuto e lavorato negli anni Novanta.

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