nostro inviato a Venezia
Quando sorride, qualcosa dellantico fascino emerge ancora fra le pieghe di un volto che è una maschera dove ormai occhi, naso, bocca sono un tuttuno che sembra cucito con la fiamma ossidrica. Fra i tanti attori maledetti, per finta e per davvero, che Hollywood ha sfornato nel tempo, Mickey Rourke è quello che la maledizione ce lha scritta in faccia, e con tanto di firma autografa. Nessuno può vantare, come lui, la coscienziosa demolizione fisica e psicologica della propria immagine.
Cominciò ventanni fa, sulle soglie dei quaranta, quando era ancora lidolo delle donne in calore che sognavano di farsi soggiogare per lo stesso arco di tempo del film che gli aveva dato la fama: Nove settimane e mezzo. Mollò tutto, si scelse un nome darte, El Marielito, decise di fare il pugile professionista... Dissero che era un suicidio artistico, ma sotto cera qualcosa di più profondo: la solitudine di uno che si sentiva un lottatore della vita, ma che fino ad allora le sue battaglie le aveva avute principalmente nella finzione di un set cinematografico, nelle suites di qualche albergo di lusso distrutte per eccesso di ira; langoscia che prende tutti quelli che hanno avuto in dono lavvenenza fisica, quando si accorgono che il tempo passa e la giovinezza di colpo è alle loro spalle; la consapevolezza di essere comunque, arrivato troppo tardi allappuntamento con se stesso, il tramonto di una vita da pugile scambiato per lalba di una nuova esistenza.
Per tre anni Mickey-El Marielito si ridusse alle dimensioni di un ring, su quadrati di periferia dove il pubblico non andava per vedere la sua arte pugilistica, ma per godere dei colpi che sfiguravano la faccia dangelo del divo che li aveva traditi in cerca di qualcosaltro... Quando il ciclo si chiuse, ciò che gli restò in mano fu una serie di operazioni di chirurgia plastica per ridare al suo volto una qualche simmetria, un via vai di psicanalisti per ridare alla sua anima una qualche ragion dessere.
Da allora, Mickey Rourke è una sorta di leggenda in negativo che cammina e il Leone doro a The Wrestler, il film di cui è protagonista, è in realtà il premio a un attore che ha dovuto sfigurarsi per accettarsi, uno che su di sé ha sempre cercato il ko degli altri. Del pubblico, della critica, delle donne.
Se è vero che solo chi cade può risorgere, Mickey Rourke ne è lincarnazione. Ed è impressionante vedere come limponenza fisica, nel film rastremata dalla palestra, e qui in laguna di nuovo appesantita da una vita che ha conosciuto e conosce ogni genere di eccessi, si accompagna a una sorta di fragilità psicologica, tipica di chi ha bisogno degli altri per meglio tenere a bada se stesso, di uno che si deve circondare di gente per meglio potersi sentire solo.
A quasi sessantanni, difficilmente il cinema gli offrirà ancora unoccasione così, e malinconicamente viene da dire che anche questa volta Rourke arriva troppo al tramonto per poterlo verosimilmente scambiare per una nuova aurora. È un segno del destino, il suo, questo ritrovarsi a lottare fuori tempo massimo, quel tanto che basta a scacciare per un po i demoni che lo affliggono, quel tanto che manca a sconfiggerli per sempre. Perché come lottatore Rourke appartiene alla categoria degli sconfitti, per i quali vale quella frase di Ernest Hemingway in Avere e non avere: «Un uomo può essere sconfitto, ma non vinto». Significa il non farsi illusioni sui finali di partita, ma non per questo rifiutarsi di giocarla, significa la consapevolezza che non se ne verrà a capo, senza però che questo significhi il perdere la propria dignità e il fare onestamente la propria parte.
Per molti versi la sua parabola esistenziale riconcilia con il mondo falso e platinato del cinema come industria, pettegolezzo, scandali montati, egocentrismi e narcisismi da quattro soldi truccati da crisi esistenziali e da interrogativi artistici.
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