Il paradosso di un premier ostaggio degli alleati

Pensate, già un secolo fa, dato che il loro «Commento allo Statuto del Regno» è stato pubblicato per i tipi della Utet nel 1909, due distinti studiosi quali Racioppi e Brunelli si interrogavano sui rapporti intercorrenti tra il governo e la propria maggioranza parlamentare. Ed ecco come la pensavano al riguardo: «Si suol ripetere che il Gabinetto è il Comitato esecutivo della maggioranza parlamentare, in quanto ne “esegue” i voleri: ma più correttamente deve dirsi ch’esso è il Comitato direttivo della maggioranza medesima, in quanto la dirige e la guida nella esplicazione d’ogni sua attività». La realtà di una volta, che peraltro ha avuto parecchie eccezioni, con l’andare del tempo è diventata un wishful thinking. Ma sì, un pio desiderio. Perché le nostre istituzioni non sono mai approdate sulle rive del Tamigi, dove funzionano a dovere. Così, non pochi presidenti del Consiglio si sono rassegnati a ripetere il motto del socialista Filippo Turati: «Sono il loro capo e li seguo». Nella convinzione che è meglio tirare a campare che tirare le cuoia.
Ma c’è un limite a tutto. E Prodi lo ha ormai superato senza provare vergogna. Riflettiamo. In appena otto mesi il presidente del Consiglio ha portato in collegio i suoi cari (ma quanto gli costano!) per ben tre volte. Prima in Umbria, a San Martino in Campo. Poi a Roma, a Villa Pamphili. Infine, crepi l’avarizia, nella reggia borbonica di Caserta. Perché mai si è risolto a tanto? Soprattutto per due motivi. Primo, per cercare di ridurre alla ragione e magari mettere in riga i propri ministri, evitando l’impressione penosa di una felliniana prova d’orchestra. Secondo, per annunciare urbi et orbi - in cornici tanto simboliche - le mirabolanti iniziative ministeriali. Nessuna delle due mete, come dimostra il finale di partita casertano, è stata raggiunta. E, per di più l’eterogenesi dei fini si è ritorta come un boomerang contro l’apprendista stregone di Palazzo Chigi. Perché la montagna di buoni propositi, dei quali è notoriamente lastricata la via dell’inferno, non è riuscita a partorire neppure un topolino.
La guerra hobbesiana di tutti contro tutti è continuata come se nulla fosse. Di Pietro e Mastella da tempo ai ferri corti. La Pollastrini e la Bindi si guardano in cagnesco per via dei Pacs. La Bonino sul piede di guerra nei confronti del solito Di Pietro, che pur di godere delle luci della ribalta è disposto a tutto. E così via litigando. Il premier avrebbe potuto appellarsi alla Costituzione, che gli conferisce il potere di dirigere la politica generale del governo, e alla legge sull’ordinamento della presidenza del Consiglio, che lo legittima, a mettere il bavaglio a ministri che procedono in ordine sparso, debordando dai compiti loro propri. Ma Prodi ha preferito lasciar perdere. Perché ha abbaiato alla luna un’infinità di volte e questo è il bel risultato.
A Caserta abbiamo avuto la riprova che Prodi è succubo di una coalizione che lo comanda a bacchetta. Ma i guai non vengono mai da soli. Si dà il caso che su nessuna questione si registra una piena convergenza. Perciò il Professore si rassegna all’inconcludente logica del rinvio, dalle liberalizzazioni alle pensioni, tipica della peggiore prima Repubblica. Farà la fine, vedrete, di quel gaudente che aveva due amanti: una vecchia e l’altra giovane. La prima gli toglieva i capelli neri, la seconda quelli bianchi. E il poveretto rimase calvo.

Vittima dei veti incrociati dei riformisti, più che altro immaginari, e dei massimalisti, che giocano sempre più duro; Prodi è condannato alla paralisi progressiva. Colpito da calvizie come il faraonico programma dell’Unione. Ormai pieno di vuoto e nulla più.

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