Da Parigi una lezione per l’Italia

Livio Caputo

Le immagini delle periferie francesi messe a ferro e fuoco da bande di giovanissimi musulmani che si sentono discriminati per motivi religiosi e razziali hanno indotto molti telespettatori a chiedersi se domani la stessa cosa potrebbe accadere anche da noi.
Nello stesso tempo, hanno riacceso il dibattito su quale sia il metodo migliore per gestire il fenomeno dell'immigrazione extracomunitaria: quello francese di puntare a una fantomatica piena integrazione, concedendo la cittadinanza a tutti ma scoraggiando il multiculturalismo fino a vietare alle donne musulmane l'uso del velo nei luoghi pubblici; quello britannico, di favorire la nascita di comunità etniche libere di mantenere gli usi e i costumi dei Paesi d'origine; o addirittura quello tedesco, dove per decenni gli immigrati sono stati trattati come ospiti temporanei, i famosi Gastarbeiter, destinati un giorno a rientrare in Patria.
Purtroppo, nessuno dei tre si è rivelato vincente, alimentando il dubbio che non esista una formula vincente.
Bisogna dire che la situazione italiana è difficilmente paragonabile a quella degli altri grandi Paesi europei. Sia in Francia, sia in Gran Bretagna, gli immigrati sono in buona parte originari delle ex colonie e quindi formano blocchi molto più omogenei dei nostri, che provengono da una quantità di Paesi diversi e hanno perciò pochi o punti legami tra loro.
In Germania, per contro, la maggioranza degli stranieri (con l'eccezione dei turchi, arrivati in massa negli anni del miracolo su chiamata di industrie a corto di manodopera) proviene dall'Est europeo, ed è quindi di più facile assimilazione sul piano culturale.
L'incendio delle banlieu è tuttavia ricco di insegnamenti anche per l'Italia. In sintesi, esso ci dice tre cose.
Primo, che è pericoloso lasciare che gli immigrati si concentrino in ghetti, in cui il più basso livello delle scuole e dei servizi, l'inevitabile deterioramento delle condizioni abitative e il più elevato tasso di disoccupazione alimentano odi e recriminazioni.
Secondo, che la vera minaccia non proviene dagli immigrati di prima generazione, che hanno comunque migliorato la loro condizione di vita, ma dai loro figli e nipoti nati in Europa, che si sentono perdenti nel confronto con i coetanei bianchi e perciò frustrati nelle loro aspirazioni.
Terzo, che una volta innescata una sommossa, il controllo delle masse di immigrati può essere molto difficile, perché spesso essi non condividono i nostri valori e non accettano l'intervento di uno Stato che considerano pregiudizialmente ostile.
C'è molta discussione in Francia se i disordini siano organizzati o addirittura eterodiretti - come sembra pensare il ministro dell'Interno Sarkozy.
Non si può evidentemente escludere né che dietro i giovani incendiari ci siano i predicatori di odio dell'estremismo islamico, che sperano di tirare acqua al proprio mulino e reclutare i più arrabbiati per future operazioni terroristiche, né che qualcuno abbia dato fuoco alla miccia nella convinzione che una bella sommossa sia l'unico modo per ottenere soddisfazione dalle autorità.
Ma, stando alle analisi e alle interviste apparse nei mass media, sembra più probabile che l'esplosione di vandalismo sia frutto di combustione spontanea, estesasi poi per imitazione dalla periferia di Parigi alla provincia.
«Abbiamo il passaporto francese, ma in realtà siamo stranieri», è il ritornello degli «insorti», che non vogliono accontentarsi della condizione subordinata che i loro padri avevano - nel bene e nel male - accettato e che proprio per questo ne rifiutano l'autorità.
Si può credere o non credere allo scontro di civiltà, ma non si può chiudere gli occhi di fronte al fatto che i maggiori problemi connessi all'immigrazione nell'Unione Europea sono sempre stati provocati dai musulmani: dai maghrebini in Francia, Spagna e Italia, dai pachistani in Gran Bretagna, dai turchi in Germania e in Austria.
Talvolta, come nel caso della scuola islamica di via Quaranta a Milano, ci si mettono anche gli egiziani. Viste le differenze culturali, una maggiore difficoltà a integrarsi è naturale.
Studiando il caso francese, si può ipotizzare anche una certa incapacità ad affrontare i sacrifici necessari per inserirsi con successo nel nostro tipo di economia, che potrebbe rendere vani anche eventuali interventi a sostegno.
Non so se il cardinale Biffi pensasse a questo quando pronunciò la sua famosa frase sull'opportunità di preferire gli immigrati cristiani a quelli di altre religioni. Per ovvi motivi, questo non è sempre possibile.

Ma, finché abbiamo un minimo di scelta, sarà bene tenere conto della lezione francese.

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