Parlamento affollato, un «classico» italiano che dura dal 1861

Caro Granzotto, scrivo a lei perché mi piace che la domanda che pongo abbia una risposta caratterizzata dal suo inimitabile stile. Vorrei sapere di chi è la colpa se l’Italia ha il più alto numero di parlamentari, e anche i più pagati rispetto alle altre democrazie occidentali. Eppure abbiamo avuto per decenni una Dc di ispirazione cristiana e lei sa quant’è dura per un ricco passare per la cruna di un ago. Abbiamo avuto per decenni un Pci che s’è fatto portabandiera della questione morale. Un Pri che appoggiava i governi a patto che non si sforasse il bilancio. Un partito radicale che pur piccolo s’è fatto sentire. Non mi risponda che la colpa è un po’ di tutti, ci sarà pur stato un partito che ha più colpe degli altri.

Ma come faccio a non risponderle che la colpa è di tutti, caro Mastrigli? E come può pensare che così non sia? Gli schieramenti politici possono anche venire alle mani, in Parlamento, ma quando si tratta di far cassa, tutti d’accordo, tutti complici. Naturalmente, con eleganza: per non dare ad intendere di aumentarsi la busta paga, stabilirono da subito di legare la loro a quella dei magistrati presidenti di sezione della Corte di cassazione. È dunque sufficiente che ritocchino quella per vedersi ritoccata la propria. E la pensione? Mica la chiamano pensione, col rischio di trovarsela non cumulabile. Così, sempre con molta eleganza, decisero di chiamarla vitalizio. Lei mi chiederà: decisero chi? I Padri costituenti, caro Mastrigli, ovvero i parlamentari eletti nella prima tornata elettorale dell’Italia Repubblicana. Fecero tutto loro e di comunissimo accordo. Anche, è ovvio, stabilire quanti avrebbero dovuto essere i deputati (630) e quanti i senatori (315). Va detto che in materia una certa manica larga l’abbiamo sempre avuta: la prima Camera italiana, quella che si riunì il 18 febbraio 1861 nel torinese Palazzo Carignano, annoverava ben 443 deputati (il Senato, come si sa, era di nomina regia). E la popolazione, allora, era di 22 milioni di abitanti, meno della metà di quanti siamo oggi. Anche durante il Ventennio il Parlamento seguitò a essere gremito, passato indenne - quanto al numero dei membri - alla trasformazione della Camera in Camera dei Fasci e delle Corporazioni (i cui membri non venivano eletti dal popolo, ma ne facevano parte di diritto in quanto componenti del Gran Consiglio e delle associazioni dipendenti dal Pnf, da quella della scuola a quella dei postelegrafonici, dall’Istituto nazionale di Cultura al Comitato olimpico nazionale). Cosa ci abbia (li abbia) sempre indotto ad affollare il Parlamento è, da principio, la ferma convinzione che entro le mura del villaggio della politica il numero è potenza. Che quel che fa impressione, quel che poi si butta sul piatto della bilancia, è la consistenza numerica. La conta. In seguito e con il progressivo impoverimento della funzione parlamentare (defraudata dallo strapotere delle segreterie dei partiti), quello di senatore o di deputato finì per essere ciò che si definisce un «buon posto». Di prestigio, con una ricchissima busta paga, una sfilza di benefici aggiunti e una pensione, ovvero vitalizio, d’oro. E dunque più «posti» ci sono, più gente si fa contenta. Tutto qui.

(Il nostro amato Cavaliere ha annunciato d’avere in proposito di ridurre i deputati a 300 e i senatori a 150. L’impresa è titanica, pari a quella avviata da Mussolini per assoggettare Roma - e gli statali in particolare - all’orario unico. Cioè senza pausa pranzo e pennichella. Lui, che era pur sempre il Duce, fallì).

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