È un Giorgio Napolitano pimpante quello dell’intervista all’Unità, il giornale del suo partito. Ritemprato dalla vacanza a Stromboli, il presidente ha difeso con fermezza istituzioni e legislatura. Ci mancherebbe che il capo dello Stato non tenesse a entrambe. L’istituzione in questione è la presidenza della Camera, incarnata da Gianfranco Fini. C’è contro di lui - ha detto l’intervistato - «una campagna gravemente destabilizzante. È ora che finisca». Piglio affascinate con uno spruzzo di gollismo. Ricorda «la ricreazione è finita», l’interdetto del Général contro i moti del ’68. Ma ci sono alcuni però.
Come molti in questo strano Paese, il Presidente considera istituzioni degne di tutela Camera, Senato, Csm, ecc. Tutte, salvo la Presidenza del Consiglio del Cav. Oggi, infatti, si erge severo in difesa di Fini e la sua carica ma l’anno scorso non gli uscì un fiato quando il premier Berlusconi fu crocifisso su «papi» e l’escort. Vi ricordate la grancassa? E chi voleva sapere se aveva colto le grazie della pubere Noemi, chi esigeva particolari della notte con Patrizia, chi insisteva per un ricovero del Cav in una clinica del sesso. L’avventura privata divenne una sordida epopea internazionale che mise sotto assedio Palazzo Chigi. Anche nell’agosto scorso, Napolitano andò a Stromboli e ritornò rinvigorito. Ma prima e dopo fu indifferente agli sberleffi di Repubblica, ai proclami dell’immobiliarista Di Pietro, alle vesti stracciate della vergine Bindi. In una parola, al massacro dell’«istituzione». Perché questa su Fini sarebbe «una campagna destabilizzante» e quella sul Berlusca un’inezia su cui sorvolare? Forse che fare giochi d’alcova in camera propria è più grave che le tre carte sulla casa del partito finita nella disponibilità del cognatino monegasco? Delle due l’una: o Napolitano è reattivo a estati alterne per ragioni meteoropatiche; o pensa che il Cav sia un corpore vili sui cui fare impunemente tiri al bersaglio, intollerabili invece su altri che non sia lui. Se le cose stanno così, Giorgio non è credibile né ieri, né oggi.
Personalmente mi sarei aspettato che il capo dello Stato convocasse riservatamente il Presidente della Camera per suggerirgli di fare chiarezza. O, se non ama gli incontri segreti, che attraverso l’intervista gli ingiungesse di dire la verità per rispetto dell’istituzione che rappresenta. Vedo già l’obiezione. Può l’inquilino del Colle mettere platealmente in riga un così esimio collega? Entrare nel merito è contro l’etichetta e Giorgio, signore d’altri tempi, tiene al galateo istituzionale. Ma allora perché un mese fa ha pubblicamente sbugiardato il neo ministro Brancher il quale, per evitare il processo, invocava il legittimo impedimento con la scusa che era occupato organizzare il ministero? Di che cianci?, replicò con una nota ufficiale Napolitano, «non c’è nessun ministero da organizzare in quanto Brancher è stato nominato semplicemente ministro senza portafoglio». Insomma, quando vuole, Giorgio non le manda a dire. Ma lo fa solo se di mezzo c’è un uomo del Cav, salvo mummificarsi se deve tirare le orecchie al suo avversario. Conclusione: i silenzi nel 2009 per l’attacco al Berlusca e la loquacità quest’anno per puntellare Fini, sono perfetti esempi di partigianeria. E questo da un capo dello Stato, tra i migliori degli ultimi lustri, è un’autentica delusione. Di colpo, riaffiora l’opportunismo dell’antico militante del Pci.
Nell’intervista all’Unità, Napolitano fa capire di essere contro le elezioni anticipate. Nessuno gliele ha chieste - anche se il Cav ci pensa - ma mette le mani avanti. Non ci vedo, per ora, dell’antiberlusconismo preconcetto. È piuttosto il riflesso di un uomo della prima Repubblica per il quale il Parlamento è sovrano e gli elettori molto meno. Lo stesso che spinse Scalfaro - corroborato nel suo caso da dosi cavalline di odio per il Cav - al ribaltone del 1995. Non credo che Napolitano arriverà a tanto. Dopo anni di bipolarismo, è patrimonio comune che la scelta del capo del governo sia affare dell’elettore, non del trasformismo parlamentare.
La cautela di Giorgio è il frutto di innato timore, al limite della pavidità, per le decisioni secche. Anche nel 2007 quando Prodi, col suo governo alle corde, andò al Colle per dimettersi, Napolitano lo rinviò alle Camere e lo costrinse a vivacchiare tra i marosi. Poi, prese atto della sciocchezza e indisse le elezioni. Farà la manfrina pure col Cav ma finirà per arrendersi.
È stato detto che Giorgio è strutturato su tre livelli. Se pensa, lo fa con coraggio. Se parla, è a mezza bocca. Se deve agire, si blocca. Da comunista, dopo la sbornia giovanile che gli fece applaudire l’occupazione sovietica dell’Ungheria, Napolitano si occidentalizzò e divenne un moderato. I suoi lo consideravano un «destro» e lo chiamarono con disprezzo «migliorista». Aveva il coraggio delle idee, non delle decisioni e al primo ruggito dei fanatici si ritraeva. Faceva coppia, come Bibì e Bibò, con Giorgio Amendola, napoletano pure lui. Per districarsi dall’omonimia, li chiamavano «Giorgio ’o sicco», alludendo al longilineo Napolitano, e «Giorgio ’o chiatto», parlando dell’armadiesco Amendola. Dodici anni dopo il plauso per l’Ungheria, ’O sicco dissentì dall’aggressione alla Cecoslovacchia. A esporsi però furono altri, tra cui il responsabile Pci degli Esteri, Carlo Galluzzi, incoraggiato da Napolitano. Ma quando Breznev alzò la voce e chiese la testa dei dissenzienti, Galluzzi fu rimosso e dalla bocca timorosa di Giorgio ’o secco non uscì un fiato. Idem a metà degli anni ’70, quando il leader Cgil, Luciano Lama, in piena crisi economica, sproloquiava sul salario come «variabile indipendente». I miglioristi la pensavano all’opposto. Toccò ad Amendola prendere Lama per il bavero e spiegargli che anche il sindacato doveva imparare a fare i conti. La teoria, in quell’ambiente, era però impopolare. E puntualmente, ’O sicco si defilò, lasciando solo ’O chiatto nella sua battaglia. Oggi, Napolitano difende - sia pure strabicamente come abbiamo visto - le istituzioni. Ma quando nel 1978 Berlinguer, l’onesto, volle la defenestrazione di Giovanni Leone dal Quirinale per colpe mai commesse, ’O sicco si mise obbediente dalla parte dei golpisti. Giunto Craxi al potere, i miglioristi - Chiaromonte, Macaluso, Colajanni, ecc - si prodigarono per avvicinare il Pci al riformismo del Cinghialone. Ma il grosso del partito non ci stava e ’O sicco, spaventato, si mimetizzò in quelle frasi buone per tutte le interpretazioni di cui è maestro.
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