Lodovico Festa
Lo sfogo più o meno isterico che Piero Fassino ha rivolto l'altro giorno contro Paolo Mieli («Se vuol far politica, si candidi») merita ancora qualche riflessione. Perché aiuta a capire sia quel che avviene nel Corriere della Sera sia che cosa bolle in casa Ds. Dirigere oggi il Corriere significa anche impegnarsi a garantire una qualche armonia nella sua complicata proprietà (oltre quindici soci). Ricordiamo al proposito che come i bambini non nascono sotto i cavoli, così le proprietà non è vero che non contino proprio niente nel definire le linee editoriali dei quotidiani. Lo ha notato persino il prudentissimo Alessandro Profumo.
La Rcs ha oggi come centro del suo equilibrio societario l'asse del cosiddetto piccolo establishment (Cesare Geronzi, Marco Tronchetti Provera e Luca Cordero di Montezemolo), tre protagonisti dell'economia italiana che non hanno però, per condizioni innanzi tutto oggettive, l'autorevolezza e dunque il ruolo di Gianni Agnelli ed Enrico Cuccia dei tempi migliori. Per sopperire a questo minor peso della proprietà, a Mieli tocca fare un po' «il Cuccia» (come dice lui stesso, facendo finta di scherzare), e cercare di essere un punto di riferimento del cuore della borghesia italiana. Al grande vecchio di Mediobanca il ruolo di equilibratore del capitalismo italiano riusciva innanzi tutto per le sue magie finanziarie che sottomettevano la politica invece di esserne subordinate. Mieli deve invece usare molti dei trucchi che gli ha insegnato il suo antico maestro Eugenio Scalfari, perché solo dominando in qualche modo il quadro politico, riesce a sostenere l'influenza economica dei suoi soci di riferimento. Da qui tutte le operazioni sulle mezze ali del centrodestra e del centrosinistra per indebolire un contesto politico che se troppo solido influenzerebbe troppo anche i «proprietari» di Rcs.
Non ci permettiamo di giudicare se questa linea del Corriere sia gestita bene o male, se sia corretta o no. Quando si tratta di un concorrente il giudizio che conta è quello dei lettori. L'unica cosa che non ci si può chiedere è di considerare il Corriere un'istituzione: già, come si è visto anche in questi mesi, è sbagliato santificare le vere istituzioni come Banca d'Italia (o la magistratura), figurarsi se si deve trattare in questo modo una società privata, con la sua proprietà, con i suoi profitti, con «la sua linea editoriale» non santa ma ben condizionata dalla realtà sia pure filtrata dalla grande professionalità mielista e dei suoi giornalisti.
Dato al Corriere quel che è del Corriere, c'è, poi, da valutare lo scatto isterico di Fassino. Certo c'è il tratto di quell'arroganza da vecchio Pci che già si era colta in Massimo D'Alema: l'abitudine di chi i giornali li influenzava mentre il proprio partito era a tenuta stagna e nessuno si permetteva o riusciva a condizionarlo. Anche se saranno vent'anni che con la Repubblica il gioco di «chi influenza chi» è cambiato. Comunque D'Alema era arrogante ma aveva una visione e non era isterico come Fassino: prendersela con due eccezionali croniste politiche come Gianna Fregonara e Maria Teresa Meli perché fanno il loro lavoro, segnala una preoccupante mancanza di serenità.
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