Partito democratico, un miraggio

Federico Guiglia

Come il Barbiere di Siviglia, tutti lo cercano e tutti lo vogliono. Ma l'agognato Partito democratico sta diventando, complici anche i quaranta gradi dell'estate tropicale, il nuovo miraggio del centro-sinistra italiano: più lo si «immagina», più ci scopre la realtà dell'oasi evanescente nel deserto.
L'ultimo brivido di Piero Fassino, che ha teorizzato l'ingresso del futuro ma ancora inesistente partito nel gruppo parlamentare dei socialisti in Europa, ha dunque sollevato le proteste del «partner» chiamato all’esperimento: quella Margherita che non da oggi teme il matrimonio che «s'ha da fare» coi Ds, e che prende ogni gaffe del convivente come alibi per frenare, per rinviare, per divorziare in anticipo.
Molti anni d'intenti ulivisti e di promesse unitarie, di muri di Berlino caduti e di ex comunisti nelle istituzioni - persino nella più alta di tutte: il Quirinale - molti anni di mondo che va avanti ovunque e comunque: ma in Italia la sinistra che viene dal più forte troncone progressista dell'Unione, suscita ancora diffidenze, paure, reazioni durissime da parte dei suoi alleati pur «naturali».
Volano le accuse di «annessione» e di «egemonia», come se i Ds fossero non il protagonista politico del disegno tanto a lungo coltivato, ma il concorrente elettorale che vuole fare il furbetto. Al punto d'aver invocato, come Fassino ha invocato, la simmetria fra l'operazione di Gianfranco Fini in corso a destra, cioè l'auspicata confluenza di An nel Partito popolare europeo, con quella sognata a sinistra per Francesco Rutelli e il suo movimento nel Partito socialista europeo. È una similitudine che la dice lunga sulla considerazione «di destra» che i progressisti hanno della Margherita accanto. E che, nel rassicurare la componente interna contraria all'eutanasia dei Ds, rivela quale sia l'approdo e non solo l'approccio strategico dell'intera iniziativa: rafforzare l'area socialista del Continente, non quindi abbandonarla in nome di un'altra e differente via fra il moderno pragmatismo di Tony Blair e il nuovismo radicale di José Luis Rodríguez Zapatero. Come dire: non ci sono possibilità né spazio per un «riformismo all'italiana» se non sotto le vecchie bandiere del progressismo europeo. Un lascito, pure quello, del Novecento.
E così rischiano di passare per innovatori, paradossalmente, quanti hanno abbandonato prima la Dc e poi il Ppi per dar vita alla Margherita, se paragonati a coloro che, in nome del rinnovamento, si sono lasciati alle spalle prima il Pci e poi il Pds. Ma che oggi non sanno o non vogliono uscire dalla «famiglia» ingombrante dell'internazionalismo socialista.
Nei fatti gli ex democristiani che stanno a sinistra si dimostrano più moderni dei «progressisti», i quali si rivelano dei banali conservatori degli equilibri che furono, temendo persino di dover un giorno cambiar casa a Strasburgo.
Si vede allora dove finisce, prima ancora di cominciare, la retorica delle primarie, del «partito nuovo», della «casa comune» tante volte indicati come delle tappe e dei traguardi rivoluzionari dell'Ulivo/Unione. Nessun progetto, per quanto propagandato, può cancellare le storie delle persone e le tradizioni della politica all'insegna di un inafferrabile nuovo inizio.
Negli ultimi decenni, almeno sei, nessun partito progressista d'Europa è evoluto in altra e lontana cosa rispetto a sé. Ogni sinistra è andata magari un po' più a sinistra, o un po' meno, ma non ha mutato né la propria collocazione né i suoi punti ideali e cardinali.
Querce e Margherite in natura si trovano dappertutto, ma in politica sono spuntate solamente in Italia.
f.

guiglia@tiscali.it

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