PASSEGGIATE Ai piedi del pensiero

Storia culturale dell’andare a zonzo: sottobraccio a filosofi e scrittori

«Solo i pensieri avuti camminando hanno valore», scriveva Friedrich Nietzsche. Anzi, più esattamente parlava di «pensieri in cammino», ergangene Gedanken. Alle spalle di Nietzsche c’era certo tutta la tradizione della passeggiata filosofica, la suggestione di quei greci che egli aveva studiato a fondo come professore di filologia classica a Basilea: il girovagare di Socrate con i suoi discepoli, la scuola aristotelica che appunto dal camminar filosofando prendeva il nome di peripatetica. Ma intorno a lui c’era anche tutta una nuova pratica e una nuova simbolica della passeggiata, che si era delineata a partire del Settecento. La passeggiata come arte del viaggio praticata in formato minore: la piccola evasione in campagna che riconcilia con la natura, o lo struscio cittadino che diventa osservazione antropologica.
La passeggiata, a differenza del viaggio, non è scoperta dell’ignoto ma esplorazione del noto. Ed è un atto gratuito, che non si propone un utile e non persegue uno scopo. «Non è diretta verso un fine, ma percorre un luogo; non conduce lontano, verso l’incognito, ma resta in uno spazio conosciuto, quello della propria cultura», come sintetizza Alain Montandon, autore di La passeggiata, una storia culturale dell’andare a zonzo appena tradotta in italiano dall’editore Salerno (pagg. 234, euro 14, traduzione di Maria Teresa Ricci).
Difficile definire lo statuto culturale della passeggiata. Da un lato essa è testimonianza di civiltà, è il paseo dei gentiluomini spagnoli, è l’animazione dei boulevard parigini, «salotti all’aria aperta», secondo la definizione di Hyppolite Taine. «I selvaggi - scriveva il naturalista Georges de Buffon - non sanno cosa sia passeggiare e niente li stupisce delle nostre maniere quanto il vederci camminare in linea retta e poi tornare sui nostri passi più volte di seguito». D’altro lato, però, la passeggiata è un elogio del ritmo lento che contiene in nuce una rivolta, magari solo temporanea, contro la civiltà o, quantomeno, contro la modernità. A Buffon, infatti, farà eco Hermann Hesse: «Il camminatore è da molti punti di vista un uomo primitivo, così come il nomade è più primitivo del contadino». E non si pensi che questa sia una nozione recente, legata all’epoca della velocità e delle macchine. Già nel 1802 il viaggiatore tedesco Johann Gottfried Seume criticava l’abuso delle carrozze: «Chi va a piedi vede più di chi va in vettura. Ritengo che il camminare sia la cosa più onorevole e autonoma nell’uomo e sono dell’avviso che tutto andrebbe meglio se si camminasse di più. Le cose non possono andare bene a chi sta troppo seduto in vettura. Dove tutti vanno in vettura, le cose vanno molto male. Non appena si sta seduti in vettura ci si è allontanati di qualche grado dall’umanità originaria».
Ecco che allora il passeggiare si presenta non solo come ozio e svago borghese, ma anche come modo di riaccostarsi allo stato di natura. E non a caso uno degli autori più citati nel libro di Montandon è Jean-Jacques Rousseau. Mentre, nel passaggio tra Sette e Ottocento, il senso della passeggiata oscilla fra rito sociale e ritorno alla natura, il Romanticismo inizia ad affermarne un senso lievemente diverso. È la mistica del vagabondo, del Wanderer, dell’uomo libero da vincoli e da pregiudizi, che rifiuta la stabilità della vita borghese e segue soltanto l’inquietudine del suo cuore. È il camminare ansioso del Werther goethiano, che cerca conforto al suo dolore nell’asprezza del contatto con la terra: «Allora devo fuggire, devo andare via! E mi aggiro lungamente per i campi; è una gioia per me arrampicarmi su per un monte scosceso, aprirmi un sentiero attraverso un bosco impervio, attraverso i rovi che mi feriscono, attraverso le spine che mi lacerano! Allora mi sento un po’ meglio».
È la natura secondo lo Sturm und Drang, fatta di cascate mugghianti e di orridi montani, quella che viene costeggiata dal Wanderer. Una variante è la passeggiata tra le rovine, dove le morte reliquie di un passato lontano fanno risalire dal profondo del cuore pensieri nascosti e sovente tristi sulla caducità del tutto. La passeggiata, da rito sociale, si avvia allora a diventare anche celebrazione dell’emarginazione e della solitudine. «Il passeggiatore parigino è altrettanto spesso un uomo disperato quanto un ozioso», scriveva Honoré de Balzac. Si afferma così nell’Ottocento la figura del flâneur. Chiosa Montandon: «Il flâneur non può che essere un artista o un criminale, due espressioni ben definite dalla marginalità e dalla opposizione alla società». E così mentre il grande dizionario di Larousse condannava il flâneur come «una varietà del pigro» («Non c’è bisogno di esporre la ripugnanza che ispira questo tipo inutile che ingombra le strade della grande città ostacolando la circolazione»), Charles Baudelaire lo celebrava invece come «l’osservatore appassionato, per il quale è una gioia eleggere domicilio tra la folla, il fluttuante, il movimento, tra il fuggitivo e l’infinito».
Molti scrittori e intellettuali furono passeggiatori. Ai due estremi stanno la proverbiale passeggiata di Immanuel Kant, su cui gli abitanti di Koenigsberg regolavano i loro orologi, e gli inquieti vagabondaggi notturni di Cesare Pavese in una Torino spettrale. Molti poeti cantarono la passeggiata. Dalla poesia omonima di Aldo Palazzeschi fino allo straordinario Canto di amore di J. Alfred Prufrock, dove T.S. Eliot attacca così: «E allora andiamo, io e te,/ mentre la sera si stende contro il cielo/ come un paziente eterizzato sul tavolo operatorio...».

Due poesie che sono veri monumenti alla passeggiata come esperienza fantastica della metropoli. Anche se forse ancora oggi il fascino della passeggiata resta rinchiuso nella definizione di Baudelaire: un movimento sospeso «tra il fuggitivo e l’infinito».

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