Controcultura

Il "Pasticciaccio" di Gadda finalmente si può sbrogliare

La nuova edizione del romanzo svela le novità filologiche (e non solo) del geniale «giallo»

Il "Pasticciaccio" di Gadda finalmente si può sbrogliare

Da un editore glorioso, come Garzanti, ma incapace per sopravvenuti malori di sostenere il peso del proprio immenso catalogo, che è come una memoria d'elefante (antifrasticamente, proprio Garzanti titolò, anni fa, «Gli elefanti» una propria collana economica), il più importante romanzo italiano del XX secolo, il Pasticciaccio dell'Ing. Carlo Emilio Gadda passa a chi, come Adelphi, ha fatto viceversa della memoria lunga la propria vocazione.

E vi passa in un'edizione bellissima, capace - è la speranza - di riproporre il gran libro non già come reperto fossile (tale è ahimé la vocazione dei tascabili, da noi) ma per la sua eterna, inesauribile novità: come è proprio del genio, che ha la capacità di rinascere nuovo ad ogni lettura e di non star comodo perciò non soltanto in nessun profilo storico - che dio stramaledica i profili storici, i cataloghi dei libri imperdibili, i consigli del libraio di fiducia -, ma anche in nessuna tasca, se non di liceale, e in nessuno scaffale dei classici, se questi non sono tali per il lungo drammatico dolente amore di chi, lentamente, quello scaffale ha fabbricato, tra dubbi, scarti, reintegrazioni eccetera.

Dunque: Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana, a cura di Giorgio Pinotti (Adelphi, pagg. 380, euro 18). Nella preziosa appendice del Pinotti (coadiuvato da Paola Italia, Arnaldo Liberati e Claudio Vela), la storia del tormentatissimo capolavoro si arricchisce di diversi capitoli quanto soprattutto alle varianti e all'uso della lingua romanesca, mentre altri ne illumina, come è accaduto a intervalli, fin dalla sua uscita e poi di continuo, negli anni, col rinnovarsi degli innamorati (Citati, Arbasino, Isella...), come se la storia editoriale del Pasticciaccio si lasciasse dietro, piano piano, frammenti di un'altra storia, più segreta.

Che lo spunto narrativo venga da un fatto di cronaca occorso nel 1945 a Roma (l'assassinio della facoltosa Angela Barruca, romana, ad opera di due beneficiate) e che sia stato offerto a Gadda - all'epoca in precarie condizioni economiche - dall'amico Giorgio Zampa, è cosa risaputa. L'idea balena immediatamente nel cervello dell'Ingegnere, che già nel '46 ne prepara un'ipotesi di intelaiatura, retrodatando gli eventi al 1927. Angela Barruca acquista nome nuovo e antico volto, quello di Liliana Valdarena in Balducci.

Questo arretramento di diciott'anni, in stile manzoniano, lascia pensare che Gadda avesse necessità niente più che di una miccia per accendere un mondo già tutto presente in lui e - poiché le micce sono sempre di fondamentale importanza - per connettere questo mondo, dolentissimo, con il mondo di tutti, dell'Italia, con la memoria dolorosa di un intero Paese condannato a cercarsi, trovarsi e perdersi più e più volte (come anche a presente), tra guerra e guerra, tra sopruso e sopruso, tra umiliazione e umiliazione.

Già, perché la storia di una donna bella e ricca e sovranamente infelice per l'incapacità di aver figli s'incastra bene, nel 1927, dentro i sogni prodotti dall'ideologia mussoliniana. Dare italiani al mondo! Riempire d'italianità, di santi poeti e navigatori, un mondo che qualcuno voleva fatto apposta per questo: l'interferenza, insomma, dei sogni privati, quelli del profondo, con il pubblico delirio.

Il Pasticciaccio è anche una lettura a posteriori di tutta la storia d'Italia dal Regno allo sfacelo post-bellico: uno dei migliori saggi storici, per la verità, e anche politici per la comprensione dei nessi che intercorrono tra i disegni del potere e il sentimento generale: là dove domandarsi cosa sia causa e cosa effetto è del tutto vano. Un nodo, un groppo, uno gnommero, come lo chiama Ingravallo, l'ispettore che conduce le indagini per la morte della cara Liliana, non è solo un delitto, ma la Storia intera, verso la quale Gadda nutre lo stesso amaro pessimismo del suo vate, Alessandro Manzoni.

«Ancor ruine/ sopra ruine ammucchierem», recita l'Adelchi dell'adorato Manzoni. Ma quanta passione, quanto strazio in questo rovinare dei corpi e della mente, in questo precipitare del Tempo in una sorta di buco nero, che lo assorbe! Per comprendere la desolazione che pervade le pagine impagabili del grande libro occorre andare alla biografia palese (Giornale di guerra e di prigionia) e a quella sottotraccia, come ne La madonna dei filosofi, prima raccolta di racconti dell'Ingegnere, o ne Il castello di Udine, in specie nel trittico conclusivo titolato «Polemiche e pace nel direttissimo», dove il riferimento alla morte del fratello in guerra, che per lui uccide definitivamente ogni possibile sorte, specie se magnifica e (non ne parliamo) progressiva, si erge come totem della memoria, presente e futura (che è poi la stessa). Questa è la storia, negatrice di ogni storia (figuriamoci poi lo storytelling), che Gadda non ha mai smesso di raccontarci, per nostra fortuna.

Giallo. Così ci fu annunziato il Pasticciaccio. Che giallo non è: il volto dell'assassino, o meglio dell'assassina, compare alla prima pagina, il suo nome a un terzo del libro, e il lettore capisce, le parole sono chiare, inequivocabili: capisce così da lasciar libero lo scrittore di inseguire le vere ossessioni dell'anima sua (e di tutti), che poco hanno a che vedere col «chi è stato» e il «chi non è stato».

Ma per parlare del Pasticciaccio ci occorrerebbe un altro libro, forse più lungo. Romanzo al massimo grado, se per romanzo s'intenda (come è) tutto ciò che non era romanzo - né reale né possibile - prima della sua venuta al mondo. In un tempo di manuali cencelli di donne prassedi della Letteratura (cara e povera lei!) possiamo infatti accettare come «romanzo» solo (o con poche deroghe) ciò che non dovrebbe essere tale: gli inconclusi, gli inconcludenti, quelli che si sperdono in infinite digressioni, le spataffiate del narratore onnisciente (specie se si chiama Hugo, o Gadda), gli anti-psicologi.

Quale docente di storytelling avrebbe il coraggio di dirci che i romanzi vanno scritti come il Pasticciaccio? Ecco perché il Pasticciaccio è un romanzo, in un ambito del sapere in cui la conoscenza stessa si presenta come reversibile (quante chiacchiere di improvvisati narratologi sui blog, nelle bookcity di ogni latitudine, quanti Cip e Ciop della narrazione). Contravvenire, contravvenire. Se no, se mòre!

Adesso, poi, che nessuno rivendica più i «nipotini di Gadda», come se Gadda potesse fare da modello ad alcuno, è più dolce abbeverarcisi. Nella sua lingua che romanesco non è ma solo italica Babele di un Paese che non s'intende, e si perde tra sé e sé, ieri come oggi. Nella gola squarciata di Liliana, pura come giglio, che splende della stessa luce di Mondella Lucia (eccolo, il volto antico), la quale forse ne fu antenata: anche lei andata sposa a un bravuomo di ingenua braveria. Nel suo brancicare tra le parole più inimmaginabili, pescate sempre e solo in fondo (e dove, se no?) al sacco del nostro lessico, dove la parola cerca - la disperata - di uscire dall'esilio della lingua e riattaccarsi al seno materno.

Ma i morti de fame, scrive Gadda nel '33 dove andranno a sbattere? Il grembo della mamma non può riprenderli indietro.

E così è.

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