Le pensioni da fame sono un «regalo» dei nostri sindacalisti

Caro Granzotto, leggendo quanto ha scritto nel Giornale del 18 Settembre, ho finalmente capito perché dopo 36 anni di contributi versati all’INPS, la mia pensione è così miserabile. Già tempo fa si diceva che le cose non potevano andare bene, in quanto per legge, di 19 consiglieri INPS, almeno 12 erano scelti fra i sindacalisti. Queste notizie sono un mio incubo da molti anni; non ho mai avuto fiducia in questi «protettori» degli operai, sempre molto misteriosi quando si tratta di parlare dei loro stipendi. Forse sarebbe stato meglio, invece di faticare otto ore al giorno, dedicarsi ai centri Askatasuna: il riconoscimento in pecunia sarebbe stato più generoso.
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Lei si riferisce, caro Dal Palù, alla Legge Mosca grazie alla quale Partito comunista, sindacati, Coop e in parte anche la Democrazia cristiana sistemarono la propria manovalanza - qualcosa come 40mila individui compensati, chi più chi meno, in nero - assicurandole la pensione come se i contributi fossero stati versati sull’unghia. Per l’Inps fu una batosta, ma tacque, non oppose resistenza: si limitò a pagare. Fu calcolato che il colpo di mano - scusi se mi ripeto, ma forse qualche lettore è all’oscuro della vicenda - finì per costare all'Istituto di previdenza la bella somma di 25mila miliardi di lire, ancorché «spalmati», per dirla nell’idioitaliano. Naturalmente chi avrebbe dovuto fare fuoco e fiamme per l’inaudita scelleratezza contabile della quale avrebbero poi pagato il conto i lavoratori, mi riferisco al Pci e ai sindacati, fece invece finta di niente. Né avrebbero potuto far altrimenti essendo proprio loro gli ispiratori della legge che poi, tanto per intorbidare le acque, affidarono a un socialista (ancorché di sinistra e con trascorsi da sindacalista). E dire che nelle casse del Partito comunista e in quelle della Cgil i soldi non mancavano e anzi, ne avevano a carrettate. Il primo perché abbondantemente foraggiato dal Cremlino, il secondo perché alluvionato dai proventi del tesseramento (e affini). Erano infatti, quelli della Legge Mosca, gli anni delle vacche grassissime, quasi obese. E dire, ancora, che se mai c’era qualcuno che avrebbe dovuto rispettare appieno i diritti dei lavoratori, retribuendoli doverosamente e versando i rispettivi contributi previdenziali, erano sempre loro, i compagni. E invece hanno fatto i furbi, non distinguendosi dai tanti altri furbi e furbetti contro i quali si scagliarono e tuttora si scagliano (salvo chiudere un occhio per gli insider trading - 3 milioni e mezzo di euri di penale - dei cari familiari di un editore molto, ma molto «sinceramente democratico». Omnia munda repubbliconis).
Lei, caro Dal Palù, afferma di non avere mai avuto fiducia nei «protettori» sindacalisti, ma non è certo il solo. L’emorragia di iscritti sembra non avere fine e il più tosto dei sindacati, la Cgil, sopravvive solo grazie alle quote dei pensionati. Tant’è che per dimostrare d’essere ancora vivo e capace di adunare le folle o le masse, come si preferiva dire, ha dovuto declassare quello che fu il solenne, maestoso Comizio del primo maggio a Concerto del primo maggio. Una manifestazione canterina. Però, come lei giustamente annota, gli stipendi (e le pensioni) de gotha sindacale restano quelli dei tempi d’oro pur se, stante l’antidemocratica segretezza dei loro bilanci, a voler vederci chiaro è impossibile.

In quanto all’Askatasuna, ai centri sociali, come luogo di diciamo così lavoro e fonte di reddito, lasci perdere, caro Dal Palù: per farne parte occorre essere figli di papà. Dei «bamboccioni» a oltranza e temporaneamente fuori sede (vitto, lavatura e stiratura, da mammà).

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