
Sul set del Calendario Pirelli 2026, Eva Herzigova emerge dall’acqua come un’apparizione sospesa tra sogno e materia. Non è solo una delle modelle più iconiche degli ultimi trent’anni, ma anche una donna profondamente consapevole del proprio corpo, della propria storia e del tempo che attraversa. L’abbiamo incontrata subito dopo una lunga sessione di scatti in una vasca piena di acqua fredda, dalla quale non è voluta uscire fino a lavoro compiuto: “Gliel’ho proposto più volte – rivelerà il fotografo Sølve Sundsbø -, ma lei è di una professionalità incredibile”.
Eva, come è andata in acqua?
“È stato intenso. Ho cercato di stare il meno possibile perché non era calda, anzi… poi però ho fatto la doccia e quella era ancora più fredda (ride). Però è stato affascinante. Sølve ha detto che assorbo molto l’acqua e forse è vero: c’è qualcosa nella sua fluidità che sento mia. L’acqua prende la forma di ciò che la contiene, e questo ha qualcosa a che fare con il mio modo di essere, con la mia elasticità interiore”.
Ti abbiamo vista muoverti come una danzatrice.
“È buffo, perché non vedevo assolutamente nulla. Mi guidavano da fuori, dicevano: “muovi la testa verso l’alto, lì c’è la luce”, ma ogni volta che lo facevo mi entrava l’acqua nel naso. È stata una piccola sfida, perché c’era poco controllo. Ma proprio questo ha reso tutto speciale. È un’esperienza che ti chiede di lasciarti andare, di fidarti”.
La Herzigova è sinonimo di grande disciplina, di rigore.
“Esatto. Tutti pensano che io sia molto perfezionista, e in effetti lo sono. Ma dentro di me convivono due nature: sono del segno dei Pesci, e i pesci nuotano in direzioni opposte. Una parte di me è organizzata, strutturata; l’altra è creativa, impulsiva, istintiva. Questa seconda parte emerge quando lavoro sull’istante, sulla sensazione. In questo caso, in acqua, ero completamente immersa in quella dimensione”.
Che indicazioni ti ha dato il fotografo?
“Poche, ma intense. Lui lavora in una dimensione quasi surreale: non usa l’intelligenza artificiale nel senso stretto, ma c’è qualcosa nelle sue immagini che rimanda a una luce digitale, a un’estetica sospesa tra reale e immaginario. In questo progetto ci ha messo nella natura, ma con una bellezza che sembra venire da un’altra frequenza. È difficile da spiegare, ma è potente”.
Per te è il terzo Calendario Pirelli, giusto?
“Sì, il primo nel 1996 con Peter Lindbergh, poi con Bruce Weber nel 1998. Questo arriva dopo trent’anni. Ed è bellissimo vedere come Pirelli abbia saputo cambiare linguaggio, evolversi. Oggi è un calendario che celebra le donne nella loro complessità, non più solo come simboli estetici, ma come portatrici di storie, esperienze, energia”.
Che significato ha partecipare a un progetto del genere?
“È una forma di riconoscimento, ma anche di responsabilità. Il casting di quest’anno è incredibile. Donne iconiche, ciascuna con una fisicità che racconta qualcosa. Siamo immerse nella natura, ma allo stesso tempo trasfigurate da questa luce di Sølve. È come un rito. E sono grata di farne parte”.
Nel corso della tua carriera hai anche detto molti “no” a proposte che non ti convincevano. Come si riconosce la differenza tra essere protagoniste ed essere oggetti?
“È una domanda importante. Per me è sempre stato fondamentale riuscire a leggere tra le righe, non mi ha mai attratto la gratificazione immediata. Anzi, la trovo noiosa. Quella tentazione che ti dice “accetta, è importante”, per me è sempre stato uno stimolo a riflettere, a resistere. Ho rifiutato anche qualcosa di importante come il film di Kubrick perché non mi sentivo rispettata nel mio ruolo. Non volevo essere solo un oggetto in scena”.
È difficile insegnare alle nuove generazioni a riconoscere questo limite?
“Sì, perché oggi tutto è più veloce, più visuale, più immediato. Ma credo che l’unico modo sia l’esempio. Io ho tre figli maschi e cerco di crescerli con il rispetto per la donna e per il femminile. La chiave è farli vivere in un contesto dove vedono il rispetto, dove sentono l’equilibrio. Non è tanto dire “questo non si fa”, ma vivere in modo che capiscano che l’amore non è possesso, non è potere”.
Hai detto che i tuoi ragazzi hanno un modo diverso di relazionarsi. In che senso?
“Parlano delle ragazze con rispetto. Non si innamorano al primo sguardo. Costruiscono un’amicizia, un rapporto, e poi – forse – nasce qualcosa di più. Il mio figlio maggiore, per esempio, una volta mi ha chiesto: “Chi è la ragazza più bella della scuola?”. E poi ha aggiunto: “Bella in che senso, mamma?”. Per lui la bellezza è qualcosa che si scopre, non che si mostra”.
Nel tuo lavoro, il corpo è uno strumento. Come vivi oggi il cambiamento fisico? Hai paura del tempo che passa?
“No, ho un rapporto molto sano con il mio corpo. I miei genitori non hanno mai enfatizzato la bellezza, mi hanno insegnato che conta come ti impegni, cosa fai, quanto dai. Il corpo cambia, è naturale. Certo, mangio bene, mi prendo cura di me, ma senza ossessioni. E sono fortunata, sì. Ma soprattutto non ho mai pensato che la bellezza fosse tutto. È una parte, non l’intero”.
Hai parlato spesso del legame con la tua terra, la Repubblica Ceca. Che rapporto hai oggi con le tue origini?
“Profondo. Per me la mia casa è lì. Amo le montagne, l’aria, la gente. Non tutti conoscono davvero il mio Paese. Oltre Praga ci sono luoghi meravigliosi, città come Litoměřice, che sembrano uscite da un sogno. E poi ci sono i miei amici di gioventù, le radici. Io torno sempre, torno ogni volta che posso”.
Tu sei cresciuta sotto il regime comunista. Sei preoccupata del contesto storico attuale?
“Un po’ sì. Vedo i segnali, non solo in Europa. Ma confido nel mio popolo, nella capacità di scegliere. Certo, viviamo un tempo difficile, pieno di estremismi, e non sempre è facile orientarsi. Ma spero che – come diceva Havel – alla fine vincerà l’amore. L’umanità”.
Tornaldo al Cal: qual è la tua personale definizione di bellezza?
“La bellezza è equilibrio. È armonia tra dentro e fuori.