La più bella crociera di Melville? La circumnavigazione del suo passato

In vita non ebbe successo. Ma segnò il futuro della letteratura

La più bella crociera di Melville? La circumnavigazione del suo passato

Vederli lì, «in una conca tra le dune di sabbia, al riparo dal vento freddo e violento», è il 19 novembre del 1856, mercoledì, mentre fumano un sigaro e uno dei due, «proprio quello d'un tempo, un po' pallido e forse un po' più triste», si mette «come sempre, a discorrere della Provvidenza e dell'avvenire e di tutto ciò che trascende l'umana comprensione», è sempre una staffilata d'emozione.

Uno dei due, Nathaniel Hawthorne (Salem, 1804-64), è console degli Usa a Liverpool - merito dei favori del presidente Franklin Pierce, un amico, di cui ha redatto, sotto elezioni, la biografia - e una manciata di anni prima ha pubblicato La lettera scarlatta, un capolavoro. L'altro è Herman Melville (New York, 1819-91), che al confidente, «in segno della mia ammirazione per il suo genio», ha dedicato Moby Dick, il libro mostruoso e memorabile, anomalo e infinito, mefistofelico e shakespeariano, edito cinque anni prima, nel 1851, accolto con alterno successo, come se i recensori si trovassero, all'improvviso, a prendere un tè con il Minotauro.

Lì, in quella conca tra le dune, due americani diversamente in esilio - uno cinto di gloria, l'altro braccato da un'inquietudine caina - fanno la storia. «La sua è una natura nobile ed elevata, e merita l'immortalità più della maggior parte di noi»: così, parlando di Melville, chiude la nota di quell'incontro, redatta sul suo diario, il console Hawthorne.

La moglie di Hawthorne, Sophia, era rimasta abbagliata dallo sguardo di Melville, qualche anno prima, «Non sembra attraversarti, ma prenderti dentro di sé». Era l'autunno del 1850: Melville, che in quattro anni, con formidabile furia esotica, aveva affastellato una serie di romanzi d'avventure oceaniche (Typee, Omoo, Mardi, Redburn, Giacchetta bianca), stava lavorando al libro definitivo, Moby Dick. Il tentativo titanico di aggiogare la leggenda della Balena Bianca. Tutto era possibile, al sole salato di quegli anni. Nel 1856, piuttosto, dopo la scarna fortuna di Moby Dick e il disastro editoriale di Pierre - «è forse il romanzo più folle mai scritto», decretò il Boston Post; il New York Literary World lo disse «un vizio eccentrico della fantasia» - Melville, nato duecento anni fa, il 1° agosto 1819, il più influente scrittore americano del Novecento (William Faulkner, Thomas Pynchon, Cormac McCarthy, per dire, sono delfini del capodoglio albino), era un uomo finito. Cominciano allora le estatiche, sfiancanti peregrinazioni - «ha lasciato la casa di Pittsfield, ha sistemato sua moglie e il resto della famiglia a Boston, presso il suocero, credo, ed è ora diretto a Costantinopoli», appunta Hawthorne - un po' anima penitente e pia, un po' malmostoso Enoch che vaga tra gli incavi dei segreti mondani e divini. Nel 1857 è a Gerusalemme, poi ad Atene, poi a Roma, a Firenze, a Milano, a Torino, a Francoforte; per tutto il 1858 e il '59, anelando una fetta di fama, attraversa da destra a sinistra e da Nord a Sud gli Usa e il Canada spremendosi in tre cicli di conferenze che hanno per tema il viaggio, le «vacanze romane» (titolo: Statue a Roma), i mari del sud.

Nel 1860, a fine maggio, Melville si prende una vacanza: s'imbarca a Boston, sul Sailor, il veliero guidato dal fratello Thomas, più giovane di lui di dieci anni. Destinazione San Francisco, passando Capo Horn. Di questa crociera, con toni da torbida fiaba, abbiamo notizia nella lunga lettera che lo scrittore invia, terminato il viaggio, al figlio primogenito, Malcolm, che ha undici anni. Le visioni antartiche e il passaggio tra le isole della Terra del Fuoco si alternano alla descrizione, cruenta, della morte di un giovane marinaio e alle scudisciate paterne («ora è il momento di mostrare quello che sei - se sei un bravo ragazzo o un buono a nulla»). In realtà, la crociera è un'onirica circumnavigazione del passato, nell'oro della giovinezza: Melville ripercorre i viaggi dei primissimi romanzi, e ci morde la tenerezza quando, avvistando una baleniera nell'oceano Pacifico, lascia la nave del fratello, «ho preso una scialuppa», s'avventa, memore di Moby Dick, a rincorrerla. La baleniera è piena di «selvaggi... arruolati in una delle isole intorno a Rarotonga», che ricordano Queequeg, il formidabile ramponiere del Pequod. Questa serie di déjà-vu, forse, corrodono lo spirito di Melville, che dopo San Francisco, pasturando la propria irrequietezza, si dirige verso Panama, Cuba, infine New York. Esattamente sette anni dopo avere scritto questa lettera, Melville trova il figlio Malcolm riverso nel sangue, morto: si è sparato. Pochi mesi prima Herman aveva trovato lavoro come ispettore di dogana al porto di New York, incarico che esercitò per vent'anni, con mistica rassegnazione.

«Per quanto fosse un parlatore affascinante quando era in vena, era anormale, come la maggior parte dei geni, e andava trattato con cautela»: Peter Toft, pittore, ricorda Melville, conosciuto da vecchio. «Sembra fare poco conto delle sue opere, e scoraggiò i miei tentativi di discuterne.

Le conoscete, diceva, meglio di me. Io le ho dimenticate». Melville non è stato la Balena Bianca né Ismaele e tantomeno Achab. Era l'oceano. Quieto, indomito - ha incenerito la propria opera, continua ad abitare il nostro futuro.

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