Il più giovane della Scala è come Toscanini «Dirigo senza lo spartito»

È il primo direttore del Regio di Parma, la città del celebre predecessore, che lui chiama Nonno: «Ogni volta vado in pellegrinaggio nella sua casa natale». Li accomuna lo studio del violoncello: iniziò a 7 anni

La prima ad accorgersi che il nipotino di 5 anni aveva una dote speciale fu la nonna materna, Ines Anti. È stato lui stesso a ricordarlo, in una lettera che le ha scritto in occasione dei funerali, lo scorso 20 novembre. Quel pomeriggio Andrea Battistoni non poteva essere nella basilica di Sant’Anastasia, a Verona: alle 17 si trovava a Trieste, impegnato a dirigere La Traviata al teatro Verdi. Il vostro cronista c’era e ricorda lo struggente addio letto sull’altare dal fratello minore: «“Vogliategli bene, incoraggiatelo sempre, perché è sensibile”, dicevi sempre di me alla mamma. Anche tu lo eri tanto, nonna, io lo sapevo e lo sentivo in ogni tuo abbraccio. Tra qualche ora, quando sarò sul podio in teatro, dirigerò il preludio solo per noi, per me e per te…».
La sensibilità per il bello. È questa la dote speciale tramandata col corredo cromosomico al maestro Battistoni, 23 anni, il più giovane direttore d’orchestra che la Scala di Milano abbia mai avuto in oltre due secoli di storia (debutto annunciato per il 23 marzo 2012 con Le Nozze di Figaro di Wolfgang Amadeus Mozart, riproposte nella storica regia di Giorgio Strehler). Sua nonna Ines entrava nel negozio Castellani & Bonani e identificava a colpo d’occhio sugli scaffali la stoffa più fine, infallibilmente anche la più costosa, con grande disperazione del marito, che una volta riuscì pure a intercettare e bloccare il progetto per una specchiera degna di Versailles commissionata da sua moglie a un intagliatore di via Ponte Pietra. Suo nonno Carlo, classe 1895, divideva le serate fra i teatri Filarmonico, Nuovo e Ristori, di cui era stato impresario l’avo Gio Batta Anti, e del quasi contemporaneo Giacomo Puccini soleva dire: «Piace ai giovani». Suo padre Marco, chirurgo, è un melomane che ascoltava in salotto Don Giovanni di Mozart mentre il frugoletto s’improvvisava protagonista immaginario nelle varie parti dell’opera. Sua madre Mariangela, pianista, docente alla Civica scuola musicale di Rovereto, è un soprano mancato che studiava con Cecilia Gasdia: il maestro Maurizio Pugnaletto, suo insegnante al conservatorio, ricorda ancor oggi che quella davvero brava era lei, ma il padre Carlo mise il veto alla carriera nei teatri lirici. Suo fratello Pietro è violinista.
Dalla mamma, che ricorda i numeri di telefono associando i bip alla scala diatonica, Andrea Battistoni ha ereditato l’orecchio assoluto, dote di natura per cui senti un suono e sai a quale nota corrisponde. Quindi dirige l’orchestra a memoria, senza avere davanti lo spartito, alla maniera di Arturo Toscanini. Ed è appunto quello di «nuovo Toscanini» il gravoso appellativo che i critici musicali hanno caricato sulle sue spalle, con recensioni entusiastiche: «più che una stella nascente, un fulmine scagliato dal cielo» (Annely Zeni); «a sentirlo (e guardarlo) dirigere, verrebbe spontaneo dire che è un predestinato» (Cesare Galla); «temperamento formidabile, scalpitante, è evidente il carisma che esercita sull’orchestra» (Roberto Chittolina); «un’autentica natura musicale, un ragazzo nato per dirigere» (Umberto Bonafini). I casi sono due: o si sono messi d’accordo o è davvero l’erede di Toscanini.
«Ma come sia uscito un Verdi così Verdi, al primo colpo, da un debuttante, deve aver lasciato di sale anche loro», ha scritto Carla Moreni sul Sole 24 Ore. «Loro» sono gli esigentissimi parmensi che hanno visto Battistoni dirigere l’Attila al Festival Verdi nel teatro di Busseto. Un exploit che gli è subito valso l’ingaggio come primo direttore ospite al Regio di Parma, la città dove, esattamente 120 anni prima di lui, vide la luce Toscanini. «Quando torno a Parma, per riconoscenza vado sempre in pellegrinaggio nell’Oltretorrente alla casa natale del Nonno», è così che ha soprannominato l’immortale predecessore. «Col suo sguardo severo mi osserva dalla gigantografia appesa nel camerino e mi fa sentire ogni volta sotto esame».
Come Toscanini s’è diplomato in violoncello a 18 anni, al conservatorio di Verona, nel palazzo che nel 1770 vide l’esibizione di un Mozart appena tredicenne e dove Battistoni si sta ancora specializzando in composizione. Come Toscanini è salito sul podio per la prima volta a 19 anni, dirigendo nell’ex Leningrado la St. Petersburg State Symphony Orchestra in Una Notte sul Monte Calvo di Modest Musorgskij, anche se considera il suo vero debutto quello del 2008 al teatro Donizetti di Bergamo, al Festival pianistico Arturo Benedetti Michelangeli, dove diresse l’impervia Quarta sinfonia di Robert Schumann («una scelta dettata dalla follia dell’inesperienza, che oggi farei fatica a ripetere»), avendo come primo violino il grande Piero Toso, di mezzo secolo più anziano di lui. Da lì in avanti è stato un crescendo rossiniano che lo ha portato al San Carlo di Napoli, alla Fenice di Venezia, al Filarmonico di Verona, al Lirico di Cagliari, al Massimo di Palermo. Fino alla convocazione più attesa, quella della Scala di Milano. È appena tornato dal Maggio musicale fiorentino e già si prepara a dirigere l’Orchestra nazionale sinfonica della Rai nel concerto per la festa della Repubblica che si terrà il prossimo 2 giugno in piazza San Carlo a Torino.
Com’è che un bambino di 7 anni s’appassiona al violoncello?
«Mia madre ci ha fatto studiare la musica fin da piccoli, ma non per avviarci all’arte, tant’è che mio fratello Pietro oggi frequenta giurisprudenza. La sua teoria era un’altra: “Poi faranno quello che vogliono. Ma se sopportano la disciplina che impone lo studio della musica, niente nella vita per loro sarà difficile”».
Se dico «musica», a che età ritorna con la memoria?
«A 3 anni. Quando ascoltai i primi brani di Schumann, era come se li conoscessi da sempre. Allora la mamma mi spiegò che li suonava durante la gravidanza. Mi rivedo impegnato in qualche esercizio al pianoforte: non riesco a coordinare le mani però sono attratto dal suono dei tasti bassi».
Poi però scelse il violoncello, come Toscanini.
«Nelle videocassette di mio padre la telecamera indugiava spesso su questo strumento. M’incuriosivano la forma, il colore scuro e, anche qui, le frequenze basse».
Il paragone con Toscanini la spaventa?
«Tantissimo, essendo improprio. Se dirigo senza guardare lo spartito, non è certo per un vezzo imitativo, ma solo perché la vista e l’udito non procedono alla stessa velocità, come insegnava Herbert von Karajan, l’altro mio idolo. Quindi è molto più facile riprendere un orchestrale in ritardo piantandogli gli occhi addosso».
Bisogna conoscere le opere a memoria.
«Per Bohème, Traviata, Barbiere di Siviglia, Attila e Viaggio a Reims ho già provveduto. Ora sto studiando Rigoletto. Ma se dovessi scegliere l’opera da imparare a memoria prima d’essere abbandonato su un’isola deserta starei sulle Nozze di Figaro, teatro allo stato puro, in cui tutto ciò che non è detto dalle parole è detto dalla musica».
I loggionisti della città di Toscanini non perdonano.
«Lo so. Sono i custodi della tradizione. Conoscono le versioni di tutte le opere interpretate da tutti i cantanti e da tutti i direttori, e al Teatro Regio fanno i confronti. Questo mi terrorizza. Per fortuna a Parma ho intessuto un bel rapporto col Club dei 27, che prende il nome dal numero delle opere scritte da Verdi».
Come si fa ad arrivare alla Scala?
«Ti chiamano».
Chi l’ha chiamata?
«Il sovrintendente Stéphane Lissner. Gli avevano parlato bene di me e ha voluto conoscermi».
Niente spintarelle?
«Le lobby funzionano dappertutto e la lirica non fa eccezione. Ma, che ci creda o no, nessuno mi ha raccomandato».
Avrà un buon agente.
«Tutti ce l’hanno. Certo, il fatto d’essere rappresentati dalla Columbia artists management può diventare già di per sé una garanzia. Il mio agente è di Reggio Emilia. La carriera dipende dal talento. Non c’è un’altra via».
Perché la sua città non s’è ancora accorta di lei?
«A dire il vero dal 25 giugno sarò in Arena a dirigere Il Barbiere di Siviglia».
Corre voce che suoni in una rock band.
«Confermo. Ma sempre meno, per mancanza di tempo. Si chiama Dalai Labaco Band ed è formata da cinque ex allievi del conservatorio Felice Evaristo Dall’Abaco, dove mi sono diplomato. Suoniamo in una sala prove vicino alla stazione ferroviaria di Porta Nuova».
E che cosa suonate?
«I miei prediletti sono i Deep Purple e gli Ac/Dc».
I puristi della lirica inorridiranno.
«Per me la musica è musica e basta, a 360 gradi. Non esiste la musica di serie A e di serie B. Oggidì gli stili non possono più essere rigidamente separati. Un interprete deve conoscere tutte le realtà espressive. Mi piacerebbe approfondire il jazz o la musica etnica. È un mondo che mi si è dischiuso dopo che per molti anni mi ero stupidamente limitato alla classica e all’operistica».
Che cosa pensa del pianista e compositore Giovanni Allevi?
«È un fenomeno interessante, se non altro perché è riuscito a far arrivare la sua musica a un ampio bacino di ascoltatori. Ci trovo qualcosa di genuino. Ma le sue sparate sono nocive per la diffusione di quel movimento che in America si chiama new classic e che in Italia ha rappresentanti di un certo interesse, come Cesare Picco».
Allevi mi ha confessato che ha paura di perdere il successo: «È la mia ansia perenne, il mio lato oscuro. Quattro giorni la settimana mi chiudo in me stesso e non penso ad altro». Lei non teme un fiasco?
«L’ho messo in conto. Il rischio fa parte del mestiere. Non ho la riconoscibilità di Allevi. Se mi fermano per strada e mi chiedono l’autografo, la prendo come una benedizione del cielo. Ma non faccio musica per questo. La faccio perché non so occuparmi d’altro e non potrei vivere d’altro».
Chi è il critico che teme di più?
«Quando al teatro Verdi di Busseto mi hanno riferito che in sala c’era Paolo Isotta del Corriere della Sera, m’è venuto un brivido».
«Il più festeggiato è stato un giovane talento di 23 anni, il direttore d’orchestra Andrea Battistoni, che quando avrà tolto il troppo e il vano dal suo gestire e dalla sua capigliatura potrà partire verso la grandezza». Isotta dixit.
«Ha ragione. È un rilievo che viene mosso a tutti i giovani direttori. Via via bisogna rendere più essenziale qualsiasi gesto rivolto verso l’orchestra. All’inizio prevale l’entusiasmo e si esagera».
Sono più d’uno i critici che le rimproverano eccessivo sussiego, come se volesse costruirsi un’immagine di artista ispirato. E il popolo della Rete, su Youtube, concorda: «Crede di essere Riccardo Muti», «io me la tirerei un po’ meno...».
«Youtube non la considero una fonte di pareri autorevoli. Poche chiacchiere da bar aggiornate al terzo millennio. Se questi signori sapessero con quale timore salgo sul podio...».
In un filmato l’ho vista dirigere Una Notte sul Monte Calvo. Faceva paura, sembrava indemoniato.
«Provo tenerezza mista a vergogna. Era il 2006. Festeggiavo la maturità a modo mio. Del resto è un poema che narra di diavoli e streghe. Seguendo il metodo Stanislavskij, mi sono calato troppo nella parte».
Perché voi direttori d’orchestra avete i capelli che vi scendono fino alle spalle? Una zazzera che ondeggia fa scena?
«Io ho un alibi di ferro: non ho mai usato il pettine in vita mia e vado dal barbiere ogni due mesi».
Come mai sul podio indossa solo una camicia nera, bianca o rossa?
«Rossa unicamente nella prima prova con l’orchestra. Di solito è di seta nera, alla coreana, con degli alamari ricamati».
Isotta esige il frac: «Era un abito di società. Oggi dovrebb’esserlo ancora per rispetto alla musica».
«Il cavaliere che va alla battaglia deve avere un’armatura comoda. Sul podio il frac m’impaccia. Inoltre, le poche volte che lo indosso, guardandomi allo specchio mi vien da ridere, mi sembra d’essere il piccolo baritono in un film di Alberto Sordi, il giovane prestigiatore, il bambino che cammina con le scarpe di papà».
In che modo affronta la battaglia?
«Ripasso a memoria i punti più difficili dell’opera e strofino un cornetto rosso che ho comprato in un negozio vicino al teatro San Carlo di Napoli. Lo tengo nell’astuccio delle bacchette. Sono come Guy de Maupassant. Quando gli chiedevano se credesse ai fantasmi, rispondeva: “No, ma ne ho paura”».
Con chi vive?
«Con i miei genitori. E sono fidanzato con Benedetta, una pianista che insegna musica ai bambini nelle scuole».
Nel tempo libero che fa?
«Vado al cinema».
Ultimo film visto?
«Habemus Papam di Nanni Moretti. Non m’è piaciuto».
Credevo Il concerto di Radu Mihaileanu.
«Ho visto anche quello. La prima parte è divertente e verosimile: ho diretto in Russia e in Romania e gli orchestrali sono proprio come li rappresenta Mihaileanu, brava gente che nella vita è costretta ad arrabattarsi. La seconda parte diventa un mélo strappalacrime sulle note di Pyotr Ilyich Ciajkovskij».
Non la facevo così duro.
«Non lo sono. Ciajkovskij è fra i miei prediletti. Dirigere La Patetica, che debuttò
mentre il compositore russo stava per morire, è uno choc emotivo. Di recente m’è capitato di farlo con l’Orchestra giovanile italiana, formata da ragazzi che non arrivano ai 30 anni. Per la prima volta ho pianto sul podio».


Che cos’è la musica, maestro?
«È un linguaggio che ha una sua sintassi e una sua grammatica, che tratta di emozioni e che supera qualsiasi barriera di nazionalità, di cultura, di censo».
E da dove viene?
«Questo è il grande mistero».
(544. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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