da Milano
È una specie di prototipo del manager globale: numero due di Amazon, il colosso del vendite online (ormai non solo di libri); in precedenza boss di Apple in mezza Europa. Diego Piacentini, classe 1960, bocconiano, ha da ieri un gallone in più: McKinsey (la società di consulenza) e lAmerican Chamber of Commerce gli hanno assegnato a Milano il primo Italian Global Leader Award. A scegliere il premiato una commissione di sette persone(dal numero di Brembo, Alberto Bombassei, a Lorenzo Bini Smaghi, rappresentante italiano alla Bce; da Marco Drago, numero uno De Agostini, a Bill Emmmott, ex direttore dellEconomist) che avevano come mandato quello di individuare il manager italiano in grado di muoversi più a suo agio in un mondo del business ormai senza confini.
Per vincere Piacentini ha superato una concorrenza di tutto rispetto. Perché se la competitività delle aziende italiane perde qualche colpo, non sembra questo il caso degli executive della Penisola allestero. Dalla finanza (non cè merchant bank europea che non abbia i suoi bravi italians installati ai posto di comando della City londinese) a una ormai tradizionale presenza di primo piano ai vertici dellinformatica (e la carriera di Piacentini è solo lultimo caso: per anni il quartier generale europeo di Ibm è stata colonia italiana).
Il problema però è che molto spesso le carriere dei manager tricolori a maggiore propensione globale e lo sviluppo internazionale dei gruppi della penisola hanno seguito strade diverse. Gli italiani sanno farsi onore individualmente nelle mega-strutture globali. Ma le aziende italiane fanno fatica a giocare con le nuove regole del turbo-capitalismo.
Nelle due tavole rotonde che hanno accompagnato la consegna del premio si è tentata una spiegazione a questa differenza di velocità. Cè chi ha parlato della naturale propensione tutta mediterranea alla creatività e alladattabilità, contrapposta a una scarsa attenzione verso procedure e norme obiettive. Ma a mostrare i limiti di questa interpretazione è stato lo stesso Piacentini: «Attenti agli stereotipi», ha avvertito. «Io credo di essere stato assunto in Amazon non perché creativo, ma perché avevo delle procedure ben chiare in testa».
Più azzeccato forse il riferimento a una differenza nei meccanismi di selezione. La grande organizzazione efficiente opera, ha ricordato tra laltro Severino Salvemini, docente alla Bocconi, in «contesti strutturati e meritocratici». Probabilmente non si può dire altrettanto di gruppi italiani, anche di primo piano, in cui a prevalere sono metodi più opachi.
Una spiegazione parziale, naturalmente, che non può far dimenticare il diverso contesto locale in cui le imprese operano.
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