È piacevole essere schiavi in suo potere

C’era un tempo in cui soltanto pronunciare la parola «bellezza» in un contesto culturale che non fosse quello della moda o delle cure del corpo, appariva offensivo e ridicolo. Offensivo e ridicolo nei confronti di che cosa? Della modernità.
Era considerata una caratteristica specifica della cultura moderna l’abbandono dell’idea di bellezza, il suo consapevole rifiuto, la convinzione teorica che la bellezza non potesse in alcun modo essere utile nel giudizio estetico. Altri erano i temi e le questioni che avrebbero dovuto interessare gli artisti e i critici: la sperimentazione dei linguaggi, innanzitutto; le rivoluzioni formali; le novità espressive; le provocazioni; e, in un ambito più specificamente costruttivo, architettonico, avrebbero dovuto prevalere i principi di funzionalità, linearità geometrica, praticità ed economicità.
È chiaro che di fronte a queste scelte di cultura estetica, la bellezza apparisse un vecchio arnese inservibile da relegare in soffitta e, possibilmente, dimenticare. Ed è stato così per tanto tempo, per tutto il tempo in cui il nostro Novecento si è illuso di poter sviluppare un’arte sulla base delle tematiche prima accennate, in ossequio a una visione progressista e scientista dello sviluppo sociale.
Così, insieme alla bellezza, cadevano altre teste, tagliate dalla ghigliottina della modernità, come la simbolicità e la miticità dell’arte. Naturalmente, c’erano dei luoghi di resistenza, oasi nell’impero della modernità perché mai si dovrebbe pensare che l’arte sia una serena espressione della cultura del tempo: in realtà, come sosteneva Nietzsche, la cultura è un campo di battaglia in cui ci sono vincitori e vinti.
Gli sconfitti di allora stanno diventando i vincitori di oggi. Il valore della bellezza non è ancora pienamente riconosciuto come un problema essenziale con cui le arti devono confrontarsi, tuttavia è sempre maggiore la consapevolezza di non rimuovere l’idea del bello dalla nostra cultura post moderna. Anzi, il segno visibile della nostra uscita dal Novecento è proprio in questo ritorno di interesse, di problematizzazione della bellezza.
Naturalmente queste mie considerazioni non sono ristrette al nostro Paese, quasi fosse soltanto l’Italia ad aver dichiarato guerra alla bellezza. La questione riguarda tutta la cultura occidentale: non è difficile constatare che in questa uscita dall’ideologia scientista e progressista nemica del bello, la ricerca artistica italiana è molto più avanti di quella francese e tedesca - troppo spesso ancorate nei loro vecchi sperimentalismi e sociologismi - e va al passo con quella anglosassone. A questo proposito è importante ricordare un libro appena tradotto dall’inglese di John Armstrong, Il potere della bellezza (Guanda, pagg.

206, euro 15,50), in cui l’autore ci guida in un affascinante viaggio fra gli artisti che con le loro opere e le loro riflessioni non hanno eluso il significato della bellezza, cercando di comprenderne il valore per la nostra stessa esistenza.

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