Piccoli King crescono anche in Italia

Si chiama «fanta-thriller», è un genere tipicamente americano che comincia a trovare emuli da noi. Con risultati niente male...

Ci sono generi che in alcune letterature attecchiscono e in altre no. Magari arrivano in traduzione e lì restano, non gettano radici e germogli autonomi. Nei casi peggiori li buttano brutti e stenterelli, tanto da far venir tristezza a innaffiarli. Qualche esempio? La fantascienza italiana. Poca e con ambientazioni rigorosamente estranee al nostro Paese. Diventano anglicizzanti luoghi, personaggi, persino gli autori, costretti a pseudonimi indicativi del vorrei ma non posso, che fan venire voglia di canticchiare «tu vo’ fa l’americano...».
Sembrava così anche per quel particolare modo di fare romanzi etichettabile come fanta-thriller, anche se le definizioni lasciano il tempo che trovano. Per intendersi, quel genere che ha per maestro e mentore Stephen King e una schiera infinita di scalatori di classifiche americani. Gli ingredienti di base sono all’apparenza semplici: una situazione normale che evolva verso l’irrazionale e l’orrorifico, trame incrociate che coinvolgano moltissimi personaggi, l’intreccio di diversi piani di spazio e di tempo maneggiato con maestria. Per cucinare con successo questo denso brodo da bestseller, però, serve una penna agile e robusta. Deve essere sciolta per inanellare pagine, deve avere un’indiscussa capacità di cesello descrittivo per far passare il lettore dal reale al fantastico senza iato. Deve, soprattutto, rendere credibili i personaggi, creare mimesi ed empatia in chi legge pigiato in autobus. Far percepire i caratteri quali persone «vere» per poi precipitarli nell’universo mitopoietico della sua perversione. È con questi mezzi che King ha trasformato il Maine, località di suo noiosa più della Brianza, in un luogo del fantastico dove il lettore medio è pronto a veder spuntare vampiri da ogni villaggio e a pagare il prezzo di copertina.
Per lungo tempo nessun italiano è riuscito a padroneggiare questo stile e farci avere, che so, il terrore di andare a Casatenovo. Una pattuglia di autori con questa capacità sta però venendo faticosamente alla luce. Sono diversissimi tra loro ma hanno sulla punta della penna proprio quel tocco narrativo.
Il primo a fare capolino è stato Stefano Massaron, milanese classe 1966. Il suo romanzo d’esordio, uscito per la microscopica Addictions, risale al 1998 e s’intitola Residui. Un horror, colmo di divinità africane e allucinazioni da eroina, ambientato a Milano, nei recessi del Parco Lambro. Non un calco delle trame di King, se mai un distillato della sua tecnica usato per descrivere un pezzo di periferia italiana e trasformarlo in un palcoscenico per danza macabra. Notevole anche il suo secondo lavoro per i tipi Einaudi (2005): Ruggine. Le pagine diventano molto meno, con evidente abbandono dell’ipertrofia così tipica degli scrittori d’oltre oceano, lo stile resta lo stesso ma più graffiante. Così un deposito di rottami, sempre ai bordi della metropoli del panettone, si trasforma nel campo di battaglia che contrappone un feroce pedofilo e un gruppo di ragazzini che lo sfidano in una partita, mortale, che niente ha da invidiare all’It del mentore americano.
Il secondo arrivato sul mercato è Giacomo Gardumi, che ritorna proprio in questi giorni nelle librerie con un romanzo uscito nel 2003. Coraggioso già a partire dal titolo: La notte eterna del coniglio (Marsilio). Lo sfondo è a stelle e strisce senza essere calco maldestro, semplicemente Gardumi viaggia e vive all’estero, la narrazione arditissima a mescolare realtà e fantasia. Così chi legge ci mette un attimo a ritrovarsi rinchiuso in un rifugio atomico, assediato da un enorme coniglio rosa alto due metri. E se qui manca la descrittività maniacale di un King o di un Koontz c’è tutta la loro scuola nel rendere credibile l’incredibile. Tant’è che Gardumi vende tanto e si è gia creato un plotoncino di fans non trascurabile.
Meno noto ma rimarchevole nei risultati è invece un giovanissimo torinese: Daniele Nadir. Al suo attivo un tomo folle a titolo Lo stagno di fuoco (Sperling&Kupfer). Tema? La discesa agli inferi di un gruppo di mortali dimenticati sulla terra, dopo il giudizio universale, da un Dio un poco distratto. Una narrazione a più piani, che parte dal parco del Valentino e da una maestra elementare, Sara Ferraris, per giungere a Joe Gould e a uno dei Giuda più umani e simpatici della letteratura. Il tutto condito con una stranissima capacità di fondere la citazione dantesca con la scrittura narrativa, il gusto per la lingua con la Storia.
Avendo un po’ di puzza sotto il naso ci si potrebbe chiedere, con acribioso termine che piaceva ai critici, se questo piccolo manipolo è composto da scrittori «necessari».

Se portano una ventata nuova, se si divertono e divertono il lettore, forse è meglio non chiedersi niente e sperare che abbiano i mezzi per sbarcare anche all’estero. Perché è così che le letterature vivono: di vendite, di fantasie non necessarie e, a volte, della capacità di imparare da oltreoceano.

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