Ci sono scrittori che scelgono il noir perché sono stati avvocati e giornalisti, altri che lo fanno perché sono stati poliziotti, altri ancora perché per anni hanno militato dall’altra parte della barricata come criminali. Derek Raymond (1931-94) confessava invece di averlo scelto perché «è una parte della metafisica. Nel noir ho cercato di applicare la mia primitiva conoscenza della metafisica direttamente alla strada - pornografia, prostituzione, frode e crimine, povertà, violenza, disperazione, scontri con la polizia. Per me il noir è diventato vitale perché da un lato corrisponde a quello che ho vissuto e dall’altro mi ha fatto vivere il più netto contrasto con il modo in cui sono cresciuto». E per scoprire i segreti oscuri che hanno portato lo scrittore inglese (autore di romanzi cult come E morì a occhi aperti, Il mio nome era Dora Suarez e Incubo di strada, editi da Meridiano Zero) a intraprendere con le sue opere la costruzione di una «metafisica del noir» è fondamentale la lettura di Stanze nascoste, in libreria dal prossimo 28 gennaio sempre da Meridiano Zero. Un libro che non fa sconti né con la vita né con la letteratura e che per molti versi è paragonabile al percorso effettuato da James Ellroy con I miei luoghi oscuri.
Stanze nascoste (scritto nel 1991) non fa nulla per venire incontro al lettore, né nello stile né nella narrazione, ma mette a nudo in maniera abrasiva l’universo in cui visse Derek Raymond (all’anagrafe Robert William Arthur Cook). Non c’è nulla di spettacolare o di morboso, nelle vicende personali che ci racconta Raymond, in quanto l’autore non vuole apparire ai lettori un eroe o un maledetto, ma semplicemente un uomo che ha scelto di vivere intensamente. Per Raymond scrivere storie noir non è un modo per tranquillizzare gli animi borghesi, bensì un viaggio all’inferno capace di impedire a chi legge e a chi scrive di trasformarsi in un assassino. L’orrore di certe situazioni può essere raccontato soltanto da chi le ha vissute e ne è testimone. E Raymond in prima persona sa di che cosa parla. Lui che fece il riparatore di tetti, ma che si occupò anche di riciclaggio di auto; che per anni fu tassista notturno a Londra in alcuni dei luoghi più malfamati della città; che accettò di trafficare in materiale pornografico, ma che divenne anche uno dei migliori collaboratori della famigerata gang dei Krays nel periodo in cui fioriva il gioco clandestino in Inghilterra.
Raymond avrebbe potuto tranquillamente evitare i pericoli della strada, visto che veniva da una famiglia ricca (il caso volle che nascesse in Baker Street, a pochi isolati dalla casa natale di Sherlock Holmes) e che era stato educato nella prestigiosissima scuola di Eton (la stessa che avrebbe cordialmente odiato anche George Orwell). Ma la strada lo reclamava e così non resistette a quel richiamo. Del resto aveva rischiato di uccidere a fucilate un bambino come lui unicamente perché aveva sconfinato nel terreno di famiglia... Come poteva scegliere una vita da Piccolo Lord un ragazzo che aveva visto la madre annullata progressivamente dall’alcool e che si era sentito rimproverato da suo padre per aver lacerato il cappello a cilindro proprio il giorno in cui era scampato miracolosamente a un bombardamento tedesco? Il piccolo Robert William Arthur aveva pianto calde lacrime per la scomparsa dello zio, morto a bordo di un sommergibile esploso durante la Seconda Guerra Mondiale, e per la nonna morta nella neve mentre bussava a una porta con le nocche ormai scarnificate a sangue davanti a una casa disabitata da tempo.
Un ragazzo ribelle come lui non si sentiva a casa nel luogo protetto scelto dal padre, dove più di una volta aveva pensato di suicidarsi buttandosi dalla finestra. L’unico suo antenato per cui per tutta la vita mostrò rispetto era un ussaro che aveva partecipato alla carica della battaglia di Balaclava sfidando la morte ma soprattutto l’ignoto.
Stanze nascoste non è però soltanto un percorso tortuoso e frammentato attraverso le vicende autobiografiche che portarono alla fuga di Raymond dall’Inghilterra verso le strade, talora criminali, di Francia, Spagna e Italia. È soprattutto è il suo testamento letterario, il suo personale manuale di vita e di scrittura in cui cerca di spiegare al lettore le sue passioni per maestri come Gogol’, Babel’, Poe, Collins, Dostoevskij, Shakespeare. Un’arguta serie di lezioni in cui racconta, più che la genesi di opere come Incubo di strada e Il mio nome era Dora Suarez, le motivazioni etiche per cui secondo lui il noir costituisce una possibile cura al malessere della vita, dimostrando in maniera inconfutabile che la letteratura non imita la realtà, ma ne è bensì cruda testimonianza.
«Lo scopo del noir - disse - è mostrare tutta la merda che lo Stato, come una vecchia domestica isterica, cerca costantemente di nascondere sotto il tappeto. Il noir solleva il tappeto davanti al maggior numero di gente possibile dicendo: “Non pensate anche voi che qua sotto ci sia una gran puzza di merda?”».
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