Di Pietro agisce sempre in punta di legge ma non di trasparenza

Caro Granzotto, nel 2006 la società Autostrade ha finanziato il partito di Di Pietro, con regolare ricevuta. Trentasette giorni dopo Di Pietro è ministro delle Infrastrutture con competenza sulle autostrade. C’è qualcosa che non va? Assolutamente no, in sede civile e penale è tutto normale, ma in sede morale? Leggo ciò dal libro di Facci «Di Pietro, la storia vera». Come stanno veramente le cose? Il fatto che se ne parli e scriva poco è dovuto ad una malignità non degna di considerazione? Sarebbe interessante sapere quando scatta, nella testa di alcuni giornalisti, il dovere di cronaca e la correttezza dell’informazione, visto il tanto sbandierare la libertà di stampa.
Roseto Degli Abruzzi (Teramo)

Le cose stanno come Filippo Facci le espose nel suo magistrale Di Pietro, la storia vera (Mondadori), caro Guerrieri. Non fossero andate così, risultando mendace un solo particolare di secondaria importanza di quella impietosa biografia Facci sarebbe stato trascinato in tribunale e ivi immediatamente condannato oltre che alla galera, a un milionario risarcimento per danni morali e biologici. Antonio Di Pietro è infatti in assoluto il recordman delle querele mosse a giornali e giornalisti. Anche se, secondo il suo noto stile, lui bavagliatore maximus presenzia e prende tonitruante parola alle manifestazioni contro questa o quella «legge bavaglio». Sì, la Società autostrade diede soldi all’Idv di Di Pietro giusto un mesetto prima che, con la benedizione di Romano Prodi, Di Pietro si installasse al ministero delle Infrastrutture (con competenza sulle autostrade). Niente di male, sarà stato un caso o una fortuna, dipende da che parte la si guarda, ma quel finanziamento, per dirla alla travagliese, resta un «fatto». Che si traduce in una pillacchera sul blasone etico di colui che di «mani pulite» dovrebbe intendersene più d’ogni altro. Come conferma la mole di «fatti» esposta da Filippo Facci, quando si tratta di soldi la tersa atmosfera dipietrista si fa non dico nebbiosa, ma quanto meno opaca: un bailamme di conti correnti e di tesorerie, di transiti e di storni dove torna difficile raccapezzarsi mentre a quanto pare Di Pietro vi si muove a suo agio, come fa il topo nel formaggio.
La cospicua donazione che nel 1995 la contessa Borletti fece, fifty fifty, a Prodi e a Di Pietro, ad esempio. Racconta Facci che al commercialista della famiglia Borletti che ne chiedeva il rendiconto il professore documentò che i primi 545 milioni li aveva spesi nella sua campagna elettorale. Mentre Antonio Di Pietro «non fornì neanche uno scontrino». Incalzato, fece poi sapere che «la donazione non era, nel mio caso, finalizzata ad attività politiche, ma all'uso che ne avrei ritenuto più opportuno». E dove stava scritto, si chiede Facci? E se così era «perché aveva denunciato i versamenti alla Camera secondo la legge sul finanziamento ai partiti?».

Insomma, anche stavolta tutto in punta di legge, ci mancherebbe, ma anche e come sempre tutto caliginoso. Con una sola certezza: nelle casse dell’Italia dei valori di quel mezzo miliarduccio non finì neanche un centesimo, parola del tesoriere del partito, Renato Cambrusano.

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