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Il pm: "Trent'anni al padre di Hina"

Brescia, il pm punta al massimo della pena per l’uomo e i due cognati che sgozzarono Hina perché "occidentale". La morte della ragazza decisa dopo un consiglio di famiglia

Il pm: "Trent'anni al  padre di Hina"

Brescia - Si sfoglia l’album dell’orrore nell’aula al primo piano del Palazzo di giustizia di Brescia. Le immagini che mostrano le 28 coltellate inferte a Hina, dirette soprattutto al volto, quelle del suo corpo martoriato che viene disseppellito nell’orto della casa paterna a Sarezzo, quelle dell’autopsia. È un macabro crescendo cui è difficile reggere senza versare una lacrima, senza voltare gli occhi dall’altra parte.

Eppure Mohammed Salem, quel padre che, l’11 agosto in quella casa la sgozzò come un agnello sacrificale, fa galleggiare lo sguardo nel vuoto. E tace. Tace per tutte le otto ore dell’udienza. Tace anche e soprattutto quando il pubblico ministero, Paolo Guidi, dopo due ore di requisitoria, mette sulla bilancia della Giustizia le sue pesanti richieste: trent’anni per quel padre pachistano che, quattordici mesi fa decise di punire nel modo più barbaro la figlia ventenne per i suoi usi e costumi oramai più italiani che pachistani. E trent’anni anche per i due cognati della ragazza, attribuendo quindi loro un ruolo tutt’altro che passivo nel delitto. Si era sempre parlato e scritto di una esecuzione decisa dopo un gran consiglio di famiglia e ieri il pubblico ministero Guidi pur rifuggendo da terminologie giornalistiche, ha pienamente confermato con la sua requisitoria, la ricostruzione dei fatti lasciando fuori dall’omicidio soltanto lo zio materno di Hina, per il quale ha chiesto due anni di carcere solo per occultamento di cadavere. In buona sostanza, secondo il pubblico ministero, Hina Salem sarebbe stata uccisa dai maschi di casa per «salvare l’onore della famiglia».

Da qui l’aggravante dei «futili motivi» oltre a quella della premeditazione, tenuto conto che la giovane, che aveva scelto in primavera di andare a convivere con un giovane operaio bresciano, Beppe Tempini, sarebbe stata attirata nella casa dei genitori con la scusa della visita di una parente, quindi sarebbe stata portata in mansarda e qui sgozzata. «È meglio, molto meglio che il mio assistito non sia stato presente in aula, e non abbia visto quelle foto», commenta Loredana Gemelli, l'avvocato di parte civile di Beppe Tempini. Di certo per quel giovane, che pure con la sua ostinazione, con la sua cocciuta preoccupazione per l’assenza di Hina, aveva costretto i carabinieri a scavare nell’orto della casa di Sarezzo e a scoprire quella verità agghiacciante, sarebbe stato un ultimo durissimo colpo.

Così, raggiunto al telefono al termine dell’udienza, riesce solo a balbettare poche parole: «Spero che giustizia sia fatta anche se nessuna condanna mi riporterà Hina». Nell’udienza dei silenzi assordanti, che sembrano sfondare il sigillo delle porte chiuse c’è soltanto la breve dichiarazione spontanea di un cognato e di uno zio di Hina, Khalid Mahmood e Muhammad Tariq che, davanti al Gup, Silvia Milesi, si proclamano innocenti.

Ma attorno, tutt’attorno quell’aula, pesa come una cappa di piombo l’atmosfera rarefatta che sembra rendere ancora più impenetrabile l’espressione enigmatica di Bushra Begum, stretta in un sari gialloverde. La madre di cui Hina si fidava. La madre che si è allontanata o è stata costretta ad allontanarsi per non assistere all’esecuzione della figlia. La madre che, nonostante tutto e tutti, fin dall’udienza preliminare ha deciso comunque di non andare contro al marito, di non costituirsi parte civile. «L’unica cosa che non dirò nella mia arringa-anticipa Albero Bordone - l’avvocato difensore del padre di Hina - è che il mio assistito è innocente. Ma tutto il resto lo contestiamo: niente omicidio premeditato, niente gran consiglio di famiglia con sentenze di morte. Soltanto un delitto d’impeto, maturato dopo una lite, dopo l’ennesima provocazione di una figlia ribelle».

Pentimento? Non ce n’è traccia. «Ma ogni mattina in cella svegliandosi - dice il legale del pachistano - rivede la sua famiglia. E c’è anche Hina». Una tesi, lascia intendere l’avvocato, che troverebbe fondamento in un coltello. Il coltello che Hina dopo una lite in famiglia avrebbe afferrato per minacciare il padre in cucina.

Lo stesso coltello con cui poi è stata uccisa.

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