I fighetti sono tutti come Willy il Coyote. Il rischio è passare tutta una vita a teorizzare, organizzare, studiare trappole e trabocchetti, per arrivare alla fine della storia con il solito finale: Beep Beep è scappato anche stavolta.
Lucia Annunziata nella lettera sul Riformista non ha scritto proprio così, ma il messaggio è un po’ quello. Lei sta dalla parte di Fini. Ne condivide le scelte. Applaude la svolta. Ma tocca un punto sacrosanto. Fini dopo le regionali non fa i conti con la sconfitta. Ha chiuso gli occhi e si è tirato un po’ più in là, scrollandosi la polvere dalle spalle. L’illusione è quella di poter andare avanti come se nulla fosse, come se tutto fosse come prima. Così non è. Le fondazioni non bastano. Non basta Farefuturo. Non basta la corrente virtuale di Generazione Italia. Fini deve chiedersi come mai non prende voti. Il consiglio è guardarsi intorno. Il rischio, appunto, è morire fighetti.
Lucia Annunziata ci ritrova la stessa malattia, la stessa seduzione, della sinistra. È la politica in cachemire. «È quel cantare la stessa canzone, densa di citazioni, libri, cultura. È quella ballata intellettuale che porta lentamente all’autoreferenzialità». È restare distanti, lontani, un po’ antipatici. Questa storia dei fighetti non nasce con l’Annunziata. Basta andarsi a vedere un po’ di blog di destra o ascoltare quelli, spesso incazzati, che nei bar di periferia o di paese si lagnano delle acrobazie finiane. Non le capiscono. Non le seguono. Controllate. Ascoltate. Il termine che ricorre sempre è proprio «fighetti». I fighetti amano Pannunzio e Ozpetek, Alan Ford e Kerouac, Hobsbawm e Melissa P., Asor Rosa e Culicchia, ascoltano Gaber e De Andrè e con Brassens cantano i viaggi di Ulisse. I fighetti amano la vita lenta e si muovono come Sid, il bradipo dell’era glaciale. Si chiedono chi salverà i magici studi di Abbey Road, stanno con Balotelli contro Mourinho, sono presidenzialisti a metà e riscoprono Malraux e Camus. I fighetti sono più francesi che americani, più esistenziali che gipofarassini e come lo scrivano Bartleby dicono troppi «preferirei di no». Ma forse come scrive Filippo Rossi, rispondendo alla lettera dell’Annunziata, sono solo in cerca di una mappa, di un «Mister Livingston, I suppose», di un cartografo: «Perché siamo – per riprendere la tua perfetta definizione – cross border, attraversatori di confini, nomadi di provenienza diversa, come si addice ai tempi “liquidi” in cui viviamo. Uomini di frontiera, emigranti dell'anima, siamo in mezzo al guado. E nel guado non esistono “ex”. Non si guarda indietro, si prova solo ad andare avanti per arrivare dall'altra parte del fiume».
E allora perché sanno di destra al caviale? Cosa dà fastidio? Bocchino che dice, come ha fatto ieri, meglio un premier gay che leghista. «Un premier leghista sconta un limite territoriale: non può governare un intero Paese che ne rappresenta solo una parte». Il braccio destro di Fini si becca gli applausi di Grillini, ma spiazza i suoi elettori di riferimento. Dà fastidio quel senso di superiorità. Quel non volersi mai sporcare la mani. Quel sentirsi una destra diversa che piace alla sinistra. La sintesi di tutto questo è la battuta ricorrente su Fini capo dell’opposizione. Quando poi Alessandro Campi prova a spiegare le ragioni dei finiani la situazione peggiora. Quando Sofia Ventura provoca e scantona di lato, radicaleggiando, genera irritazione. Il neofemminismo di Flavia Perina non scalda i cuori del Pdl. Questa non è una critica. È un dato di fatto. Le battaglie culturali e politiche dei finiani si possono condividere o meno, forse però qualcosa a livello di percezione non funziona.
Lo stesso Fini sconta un immaginario freddo, lontano dall’uomo qualunque come un’auto presidenziale. Un paio di mesi fa Vittorio Messori, che difendeva le ragioni cattoliche sulla bioetica, liquidava Fini con queste parole: «Ho conosciuto il Fini fascista. Lui non manganellava, è stato sempre un “fighetto” con cravatta e completi Facis, non era “er Pecora”, ma incitava i suoi a darsi da fare. Con le mani e, se del caso, con le spranghe». Messori non è certo l’uomo della strada, ma in questo caso fa suo un luogo comune.
Attenzione: nella vita pubblica i luoghi comuni non sono irrilevanti.
I «fighetti finiani» dicono che non vogliono morire leghisti. Quello che non dicono è che non vogliono morire berlusconiani. Questo spiega quasi tutto. È vero che è più facile per loro dialogare con la sinistra. Non c’è quel muro. Non c’è quel tabù estetico, morale, culturale. Il berlusconismo gli fa schifo, visceralmente. Come gli faceva schifo Drive In.
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