Milano - Un'inchiesta monumentale per una storia da operetta. «Si figuri - racconta Mario Borghezio, fedelissimo di Umberto Bossi e oggi europarlamentare della Lega - che il capo dele famigerate camicie verdi era il generale Pollini». Allora facevate sul serio? «Un attimo. Io cerco notizie su questo anziano signore scelto da Bossi e scopro che non aveva fatto nemmeno il servizio militare. Di professione faceva il guaritore. Credo che imponesse le mani». La procura di Verona però la pensava diversamente. E per 18 lunghissimi anni ha scavato cercando le prove di un reato gravissimo: la creazione di un esercito di partito, una milizia del Carroccio. Ora per 34 leghisti è arrivata la richiesta di rinvio a giudizio e all'orizzonte si profila un processo, in bilico fra dramma e farsa. «Era il 1996 - -riprende Borghezio - ero in via Bellerio, all'improvviso fanno irruzione gli agenti inviati dal procuratore di Verona Guido Papalia. Sfondano con il calcio delle pistole la porta dell'ufficio di Maroni alla ricerca del fax».
Il fax?
«Sì, il fax. Per aderire alle camicie versi si doveva inviare un fax. E così quel giorno i militari, quelli veri, entrano con la forza nella stanza di Maroni per sequestrare il mitico fax. Se non ricordo male fu sequestrato pure il testo di Va' pensiero ».
Verdi pericoloso sovversivo?
«Bisognerebbe chiederlo a Papalia. Noi avevamo altri problemi».
Quali?
«Il colore dela camicia».
Sta scherzando?
«Nera non potevamo farla per ovvie ragioni. Il rosso era già occupato da Garibaldi. Mi sarebbe piaciuto il bianco, alla fine abbiamo ripiegato sul verde bottiglia molto particolare».
Effetti cromatici a parte, che cosa erano le camicie verdi?
«Una trovata politico propagandistica di Bossi che andò al di là di ogni previsione. Molte persone non avrebbero mai partecipato alla vita di un partito, ma erano felici di poter coltivare un'identità forte e riscoprire l'idea di patria. Assai elettrizzante e fascinosa».
Sia sincero, non giocavate col fuoco?
«Può darsi che all'inizio qualche testa calda abbia pensato al salto di qualità, ma Bossi non ha mai autorizzato derive eversive. Mai. In compenso la Procura di Verona ha pedinato e intercettato a lungo molti di noi. Anch'io sono stato indagato, il procedimento all'inizio si chiamava Borghezio più 38 o 39, o qualcosa del genere. Sulla carta, finché il reato non è stato modificato dal governo Berlusconi, rischiavamo l'ergastolo».
Le armi?
«Mai trovate perché non c'erano. Al massimo qualche fucile da caccia, regolarmente denunciato. Eravamo un servizio d'ordine, non una milizia armata. Tognazzi e i suoi colonnelli erano più organizzati del presunto generale Pollini».
Avrete svolto attività di tipo paramilitare.
«Una volta. Volevamo fermare l'invasione dei clandestini e così il sottoscritto andò con un manipolo di valorosi a presidiare il confine orientale. Con sfoggio di tende, binocoli, infrarossi. In quell'occasione fummo elogiati dalla polizia di confine, anche perché si era sotto Natale e li rifornimmo di panettoni. E di grappa. Fra l'altro il nocciolo duro dell'organizzazione era composto da ex alpini con i capelli bianchi e una discreta propensione all'alcol».
Sia serio. C'erano le bevute ma anche le minacce di guerra civile e gli insulti a Papalia.
«La verità è che davamo fastidio e che hanno cercato di metterci fuori legge. Un ufficiale di polizia ci ha confidato che non so quale procura aveva pronta una lista di 300 dei nostri da arrestare. Il presidente della Repubblica Scalfaro ci odiava e io stesso ho sventato il tentativo dei servizi di infiltrare l'ex Prima linea Roberto Sandalo che si era accreditato in Piemonte spacciandosi per conte».
Anche lei la butta sui servizi?
«Il capitolo provocazioni è molto lungo.
A Torino, nel corso del processo sull'armeria di Susa, è emerso che ambienti vicini ai servizi volevano far trovare fucili e pistole nelle case dei leghisti. Noi volevamo solo combattere contro le tasse ma temo che abbiamo perso pure quella battaglia».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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