Altro che vietcong, fronda Pd già divisa

Parte la "mediazione" sulla riforma del Senato e i cuperliani lasciano i bersaniani da soli a combattere Renzi

Altro che vietcong, fronda Pd già divisa

Roma - Il percorso della riforma costituzionale è ancora irto di ostacoli e trabocchetti, dai milioni di emendamenti che Calderoli è pronto a sfornare «grazie ad un software» di sua invenzione alle bizze della minoranza Pd. Fino all'incognita principale, ossia la decisione di Pietro Grasso sull'articolo 2, che da sola potrebbe vanificare tutto il percorso fin qui fatto per superare il bicameralismo.

Ma ieri a Palazzo Madama si respirava un certo ottimismo, dalle parti del governo. È partito di buon mattino il famoso «tavolo» di trattativa del Pd, e la minoranza si è subito presentata divisa: l'ala dura, rappresentata dalla bersaniana Doris Lo Moro, e quella dialogante con la cuperliana Barbara Pollastrini, che dice che la riforma non solo «va fatta» ma anche «in tempi brevi». Il confronto interno al Pd messo in moto da Renzi ha un perimetro chiaro (la correzione delle funzioni da attribuire al nuovo Senato, senza toccare la questione dell'elettività dei suoi membri), e un obiettivo preciso: «Offrire una via di uscita onorevole a quei senatori della minoranza Pd che non vogliono seguire la deriva dell'ala vietcong», spiega un dirigente della maggioranza.

Ieri un segnale importante è arrivato da Vasco Errani, bersaniano dialogante, che dice: «Io sono d'accordo con la riforma, la guerra non è tra noi: nella situazione attuale, in cui sono contrari tutti i partiti, bisogna trovare il modo di fare la sintesi». Del resto chi ha seguito i vari abboccamenti tra Bersani e il vicesegretario renziano del Pd, Lorenzo Guerini, racconta che l'ex leader «non ne può più» del vacuo Vietnam interno, e che in cambio di un «riconoscimento politico» della sua minoranza da parte di Renzi sarebbe disponibile a dare via libera ad un'intesa. Ma appena ha fatto trapelare questa intenzione, il nucleo «duro» dei suoi (Speranza, Migliavacca, Chiti), convinti che si debba logorare il premier fino a farlo inciampare definitivamente, lo hanno costretto a fare dietrofront e a rialzare i toni. Di qui l'intervento in cui Bersani annunciava che la minoranza non si sarebbe mai piegata alla «disciplina di partito» sulla riforma. E di qui la contromossa di Renzi, che ha angelicamente assicurato che non avrebbe chiesto alcuna «disciplina di partito, ma solo lealtà».

Parallelamente al tentativo di spaccare la minoranza interna, che già comincia a dare i suoi frutti, si lanciano ami anche ad altre forze, perché «sulle funzioni del Senato delle autonomie la Lega è interessata a portare a casa dei risultati», e ad ammorbidire progressivamente il suo ostruzionismo. E soprattutto si lavora per rendere più difficile possibile a Grasso la scelta di riaprire agli emendamenti l'articolo 2 del ddl: di fronte all'offensiva di dialogo del governo, al pacchetto di modifiche concordate sui poteri del Senato e all'ipotesi di introdurre un listino per la scelta dei futuri senatori, al presidente del Senato rimarrebbero davvero pochi argomenti per motivare una scelta che per il sottosegretario alle Riforme Pizzetti sarebbe «sconcertante».

Perché una volta mandata in aula la riforma (ci si proverà già la prossima settimana) e acquisito il no alla riapertura dell'articolo 2, la strada sarà tutta in discesa per

il governo. «I numeri li hanno tranquillamente, a meno che un pezzo di Ncd e l'intera minoranza Pd non abbiano il coraggio di far saltare tutto», prevede pessimista (dal punto di vista di Forza Italia) Maurizio Gasparri.

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