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Ancora una volta un referendum choc. E il governo adesso tenta una reazione

Il premier Gentiloni cerca di evitare nuove spaccature nel Cdm ma è braccio di ferro tra i ministri «interventisti» e il rigorismo di Padoan

Ancora una volta un referendum choc. E il governo adesso tenta una reazione

Anche se non ci ha messo direttamente la faccia l'effetto della consultazione tra i dipendenti Alitalia sul piano industriale per il premier Paolo Gentiloni è simile a quello del referendum costituzionale su Matteo Renzi: una bocciatura senza appello a una tentativo di conciliazione tutto politico tra esigenze differenti.

Il ritorno alla concertazione, dopo i mille giorni di decisionismo renziano non ha sortito gli effetti sperati perché testato su un terreno non adatto a questa prova. Ovvio che Paolo Gentiloni no voglia passare alla storia come il presidente del Consiglio che ha liquidato Alitalia, ma il sentiero è impervio. Il capo del governo non rinuncia, però, al mantra della mediazione. Non rinuncia nemmeno dopo le sportellate del 4 dicembre e del 24 aprile, sebbene consapevole che ogniqualvolta si interpelli la gente - si tratti del corpo elettorale o dei lavoratori di una compagnia aerea - la risposta sia un inequivocabile «no».

È solo Gentiloni: il suo dante causa Matteo Renzi, impegnato nella contesa delle primarie Pd, si tiene ben lontano come sempre da ogni argomento che potrebbe nuocergli dal punto di vista dei consensi. Da una parte lo incitano i ministri che non vogliono far chiudere la baracca: il titolare dello Sviluppo Calenda, quello delle infrastrutture Delrio e il ministro del Lavoro Poletti. Quest'ultimo ieri ha spiegato a SkyTg 24 che l'ipotesi della nazionalizzazione «è esclusa»ma che «dobbiamo gestire la transizione nella maniera più equilibrata possibile per ridurre al minimo le sofferenze di tutti». Quella transizione costa un miliardo di ammortizzatori sociali da garantire ai 12.500 dipendenti che, prima o poi, saranno espulsi dal processo produttivo. E, nell'immediato, potrebbe costare altri 500 milioni da garantire al commissario straordinario (o ai commissari) per un eventuale prestito che possa garantire la sopravvivenza di Alitalia fino a una sua possibile cessione. L'Unione europea può dare l'ok ad un aiuto pubblico «per un periodo di tempo limitato», «per un orizzonte di sei mesi, a condizioni molto precise che vanno negoziate e che negozieremo sotto forma di prestito», ha precisato ieri il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda. In fondo, ci sono già a disposizione i 300 milioni che la manovrina aveva destinato al contingent equity del piano bocciato tramite Invitalia. e con il prestito si guadagnerebbe tempo.

Il fatto che in pole position per il ruolo di commissario ci sia il commercialista romano Enrico Laghi, già alla guida della procedura Ilva, fa capire quanto ai ministri di settore la vicenda interessi. In particolar modo a Calenda che, oltre ad aver deciso di sfidare ancora una volta la temibile commissaria Ue alla Concorrenza, Margrethe Vestager, ha deciso pure di far slittare alla prossima settimana dopo l'assemblea, la convocazione al ministero delle parti sociali. Proprio per far decantare la situazione.

In queste ore così convulse ha brillato per la sua «assenza» il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan. Il titolare del Tesoro è tornato ieri da New York ove ha incontrato la comunità finanziaria dopo il vertice Fmi di Washington. Ma anche se fosse stato a Roma non sarebbe cambiato molto. Il convinto europeismo di Padoan lo avrebbe portato a minimizzare gli interventi. Per natura il ministro è contrario all'utilizzo di risorse pubbliche (che aggraverebbero il deficit) a queste operazioni il cui effetto collaterale è il peggioramento dei rapporti con Bruxelles cui il ministro tiene molto.

In mezzo al guado, come al solito, il premier Gentiloni. Chi sperava nel decollo di un modello post-renziano oggi teme che l'atterraggio sia tutt'altro che morbido.

Perché le urne sono sempre più vicine.

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