Un giorno siamo tutti Charlie, un altro postiamo la foto su Twitter con l'hashtag «Bring back our girls» per le ragazze nigeriane rapite da Boko Haram. Facile essere solidali nel mondo globale. L'immagine di Aylan Kurdi, il bimbo siriano di tre anni trovato morto su una spiaggia turca riapre la questione: questa empatia 2.0 plasma davvero una coscienza globale che migliora la società, come sostiene il saggista Jeremy Rifkin? O diventa retorica conformista, il nuovo politically correct , come sostengono lo scienziato cognitivo Paul Bloom e altri studiosi del movimento Against Empaty ? «L'idea di Rifkin è smentita dalla realtà contemporanea e da quello che oggi, a livello di neuroscienze, si sa dell'empatia», commenta la filosofa della Statale di Milano Laura Boella, autrice di diversi libri, tra cui quello dedicato a «Sentire l'altro. Conoscere e praticare l'empatia». Boella parlerà del senso dell'empatia mercoledì 9 al Waterstone di Intesa Sanpaolo, il Padiglione Expo dove l'istituto di credito sta tenendo il ciclo di conferenze denominato «Sharing the world» con diversi nomi del panorama culturale.
Professoressa Boella, questa foto è un esempio di «empatia collettiva», cui però non segue un cambiamento vero?
«La domanda che dobbiamo farci è: quanto tempo durerà? Ricorda la fotografia delle bare bianche dopo il naufragio a Lampedusa di due anni fa? Anche quella colpì tutti. Ma sia chiaro: questa foto resta importantissima. E spiega benissimo la mia idea del rapporto tra l'empatia e il mondo in cui viviamo. In cui l'empatia è difficile perché c'è anche un problema di assuefazione: più abbiamo a nostra disposizione immagini terribili, meno ci emozioniamo. Quella foto impatta più di altre perché non sono diecimila bambini, ma uno. Con un nome e cognome. Conosciamo la sua storia, sappiamo che è proprio lui che ha sofferto ed è morto. La foto ci riporta al punto zero dell'umano. In cui ciascuno è costretto a guardare: è il momento iniziale, fondamentale dell'empatia».
E poi?
«Non basta guardare quella foto ed emozionarsi: se si resta lì, comincia la retorica. Bisogna fermare quella foto dal flusso di informazioni. Fare attenzione a non perdere il senso della sua unicità».
Per questo lei rifiuta l'equazione: più condivisione uguale più empatia, e più empatia uguale un mondo migliore?
«Esatto. Certo questo mondo in cui non si è mai offline favorisce forme di immedesimazione rispetto a eventi collettivi. Ma la “civiltà dell'empatia” è di là da venire. Non dico che l'empatia sia un sentimento retorico, tutt'altro. Ma non si può caricare una capacità umana, che è sicuramente un valore, di un fardello tanto pesante. Sarebbe in contrasto con la realtà: come la mettiamo, per fare un altro esempio, con i migranti marchiati con dei numeri sulla pelle in Repubblica Ceca? L'idea di Rifkin è anche in contrasto con quello che a livello neuroscientifico oggi si sa dell'empatia».
Cioè?
«È una capacità complessa, fatta non solo di circuiti emotivi ma anche cerebrali, cognitivi. Non si tratta solo di attivare i neuroni specchio, appunto di “rispecchiarsi” nell'altro. Dopo questo c'è un altro percorso, e il suo effetto “prosociale” non è affatto garantito. Chiunque di noi, camminando per strada, se vede una persona distesa per terra che sta male, ne resta colpito. Interrompe i nostri pensieri, ci coinvolge. Ma è raro che a questo segua un momento successivo in cui si passa ad aiutare quella persona. E non è perché siamo cattivi: è un fatto normale. Non abbiamo l'empatia “cablata” nel cervello: perché produca un effetto pratico, tutt'altro che scontato, ci vogliono anche coraggio, indignazione, senso della giustizia».
Lei parla anche di “lati oscuri“ dell'empatia.
«Sì: anche i tagliagole sono empatici nei confronti dei membri del proprio gruppo. Quando l'empatia privilegia il gruppo ed emargina gli altri diventa persino ingiusta. Ed è ovvio che sia più forte nel proprio ambito di appartenenza, e molto più debole quando c'è una barriera, ad esempio di lingua o di cultura. Per questo bisogna accettare che l'empatia non salva il mondo, non sostituisce le fedi né le ideologie.
Ci spinge però a uno sguardo diverso, ci permette di vedere quello che nel quadro globale non si vede. Diventa uno strumento di lettura critica della realtà: mi fa vedere lo scarto tra la mia esperienza e quella delle altre persone».Twitter @giulianadevivo
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