Milano - Non sembra particolarmente affranto dalla rottura tra Mdp e Pisapia, Franco Debenedetti, ex tante cose (amministratore delegato della Olivetti e della Sasib, ex senatore Ds), oggi consigliere in diversi Cda, presidente del think tank liberale Bruno Leoni e raffinato osservatore politico.
Debenedetti, l'ennesima scissione a sinistra.
«Una delle ragioni del vasto consenso di cui ha goduto Renzi nella fase iniziale del suo percorso da segretario del Pd, è stato l'avere rotto con alcuni tabù della sinistra, ad esempio abbandonando l'antiberlusconismo come categoria della politica. Questo ha comportato avere messo da parte (rottamato è espressione efficace ma infelice) personaggi legati ad una visione vecchia della sinistra. Anche la scissione fa parte di questi tabù: invece che personaggi che non hanno condiviso questa linea politica non si siano costituiti come minoranza interna ma siano usciti da sinistra, ha contribuito a fare chiarezza. In fondo, il pas d'ennemis à gauche non vale più tanto: un po' dovunque alla sinistra di un partito che governa accettando le sfide della modernità, c'è un partito che ha ideologie e fa scelte diverse».
Però a sinistra del Pd non c'è soltanto il partito degli scissionisti bersaniani, c'è anche Pisapia, c'è Sinistra Italiana, c'è Possibile di Civati, c'è ancora Rifondazione Comunista. Non le sembra un po' troppo affollamento e confusione?
«E con questo? Pisapia ha potuto dare l'impressione di perseguire un progetto ecumenico, ma le sue più recenti prese di posizione mi sembra abbiano fatto chiarezza: vuole ampliare i consensi per la sinistra, ma non è disponibile a entrare nei partitini del 3% che affollano il campo a sinistra del Pd. La grande ammucchiata a sinistra si è rivelata impossibile: per fortuna. Vedremo se sarà possibile un accordo politico tra Pd e Campo progressista di Pisapia».
Quindi senza Bersani e D'Alema?
«Direi proprio di sì. E questo rende più verosimile che l'accordo Renzi-Pisapia avvenga nella chiarezza. A costo di sembrare l'ottimista che non sono, direi che potrebbe perfino darsi che la necessità di definire le basi dell'intesa, porti il Pd a rafforzare (o ritrovare) le ragioni che gli hanno procurato consensi, e di mettere da parte quelle che glieli hanno alienati. Il Jobs Act e la trasformazione in SpA delle grandi banche popolari come esempio delle prime. L'aver spinto Enel a costruire una seconda rete telefonica e l'intenzione di sfidare l'Europa sul deficit, come esempio delle seconde. Di referendum e di come è stato condotto, non parlo».
Insomma lei scommette su un'alleanza Renzi-Pisapia.
«Se scommettere vuol dire prevedere, la risposta è no. Se è auspicare un accordo politico che aumenti i consensi al centrosinistra, sì. Pisapia è portatore di una sua identità, e penso che vorrà mantenerla. Se l'accordo avviene alle condizioni a cui ho accennato, credo che convenga a entrambi e al Paese. Sulla possibilità di realizzarlo, molto dipenderà anche dalla legge elettorale».
Eppure per mesi Pisapia è sembrato il candidato leader naturale della sinistra non renziana.
«Non parlo delle persone, parlo dell'identità della forza politica: nelle scelte economiche, nella posizione chiaramente europeista. E anche nella vocazione maggioritaria, nei due sensi, di partito, come è stato nella definizione datagli da Veltroni, e di sistema elettorale: era nei programmi iniziali di Renzi. Per l'oggi è improponibile, ma per il domani è ineludibile».
E D'Alema, Bersani, Speranza?
«Hanno fatto una scelta: sarà l'elettorato a giudicarla».
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