«Amo odiare, mi dà tanta forza». Fethi Benslama ricorda questa frase, pronunciata da un ragazzo, nell'introduzione al suo saggio Un furioso desiderio di sacrificio. Il supermusulmano (Raffaello Cortina Editore, pagg. 122, euro 12). Benslama, tunisino, membro dell'Accademia di scienze, lettere e arti, da anni studia e lavora a Parigi come psicoanalista ed è anche professore di Psicopatologia clinica all'Università Paris-Diderot. Dice di avere incrociato «lo spettro del supermusulmano» per la prima volta anni fa, quando lavorava nella banlieue, a Seine-Saint-Denis.
Professor Benslama, l'attacco di Manchester è una evoluzione ulteriore del terrore? Rispetto ad altri attentati choc, come quello del Bataclan, c'è differenza?
«Per riprendere una espressione di Hannah Arendt, anche nell'attentato di Manchester, come in quelli di Charlie Hebdo, del Bataclan, del Bardo, le vittime sono state uccise per ciò che erano in relazione al luogo e non per quello che facevano. La logica è la stessa: uno dei significati fondamentali dell'islam è umile. L'attentato di Manchester, al contrario, è l'ostentazione estrema e orgogliosa del supermusulmano».
Perché parla di supermusulmano?
«Perché ci sono alcuni musulmani che vogliono essere più musulmani di quello che sono e degli altri musulmani. E, per farlo, ostentano i segni del loro credo in una spirale continua e incessante».
Come nasce un supermusulmano?
«Nasce dal sentimento di non sentirsi abbastanza musulmano, dal considerarsi un rinnegato, secondo il discorso dei predicatori. Dunque il supermusulmano nasce dal senso di colpa e dal desiderio di pentirsi. E, allo stesso tempo, da una volontà di potenza religiosa che lo conduce a credersi protettore dell'islam e di Dio».
Come mai il desiderio di sacrificio, e quindi di morire, è così tipico?
«Non tutti i supermusulmani vogliono necessariamente morire, ci sono diversi gradi in quest'ambito. L'ostentazione può rimanere al livello di discorso, manifestazione o rivendicazione. Ma coloro i quali vogliono morire credono di poter accedere allo status di martire, quindi a una condizione di eletto e a una vita perfetta: quella del paradiso. Per loro la morte non è morte, ma accesso alla vita eterna».
Ha parlato di umiltà e arroganza.
«Il supermusulmano è da un lato oppresso da autorimproveri e senso di colpa, schiacciato da un Super-io crudele; dall'altro, lo stesso Super-io lo trascina verso l'idealizzazione e l'esaltazione».
Nel libro racconta di aver già incontrato «lo spettro del supermusulmano» anni fa, a Seine-Saint-Denis.
«Ho lavorato per 15 anni nella banlieue a nord di Parigi, in quei quartieri dove sono ammassati gli stranieri delle classi povere, svantaggiate. Lavoravo in consultori per la protezione dei minori. Qui, a partire dagli anni '90, il fenomeno è diventato sempre più visibile. Una amplificazione si è verificata dalla prima guerra del Golfo in poi».
C'è un legame tra supermusulmano e islamismo? E perché si parla spesso di islamismo anziché di islam?
«Il supermusulmano è il prodotto dell'islamismo. L'islamismo è una ideologia che mira ad accedere al potere in nome della religione, per instaurare il suo regno sull'insieme della società».
Qual è il rapporto tra religione e politica?
«Per l'islamismo l'unica politica è quella di Dio, quindi la sharia, la religione. Non c'è differenza tra religione e politica: è tutto religione. Parlare di islam politico è un errore commesso da molti intellettuali europei, che credono che il fatto di voler accedere al potere sia sinonimo di politica. Ma questo è falso. Dov'è la politica quando si vuole il regno delle leggi di Dio? La politica presuppone che le leggi della società siano quelle che gli uomini stessi hanno creato».
E la mania delle fatwa?
«Le fatwa sono delle sentenze religiose fatte da persone sapienti. L'islamismo ha moltiplicato le fatwa per controllare le persone attraverso i ben noti meccanismi del senso di colpa e della redenzione».
Chi sono i «nemici» dell'islam?
«Ce ne sono di due tipi: il nemico esterno, l'Occidente secolarizzato che non fa che continuare le crociate ma senza Dio. E poi il nemico interno, i musulmani partigiani dell'illuminismo occidentale, ovvero i musulmani occidentalizzati o secolarizzati; in altre parole gli apostati che hanno rinnegato la loro fede hanno cessato di essere musulmani, contrariamente alle apparenze, secondo il discorso islamista. Sono dei musulmani corrotti, viziati. È per questo che l'islamismo corrisponde a una guerra civile all'interno del mondo musulmano».
Che cosa collega il massacro del Bataclan, la distruzione di Palmira e dei Buddha di Bâmiyân?
«Il massacro del Bataclan è stato rivendicato in nome della purificazione dall'idolatria, ovvero del culto di tutto ciò che non è Dio. Palmira e i Buddha di Bâmiyân rappresentano proprio questo culto per degli dèi, al posto dell'unico Dio invisibile del monoteismo. L'idolatria è la corruzione suprema nel monoteismo».
Perché nel suo saggio dice che non sempre la religione è la sola spinta del supermusulmano?
«La religione non esiste allo stato puro, è sempre mischiata con le condizioni sociali e economiche, con lo stato di guerra e di pace. Quando nella popolazione aumenta la sofferenza, senza che sia affrontata, si fa ricorso alla religione. In una società conservatrice la religione è più intollerante. La comparsa dell'islamismo è una risposta alle condizioni generali delle società musulmane».
Il pericolo di una nuova generazione jihadista è sottovalutato?
«Era sottovalutato. Oggi non lo è più, ma è tardi: non si può arrestare un fenomeno del genere in un colpo. Serve del tempo, e soprattutto bisogna trattarne le cause. Jihadista vuol dire guerriero, cioè qualcuno autorizzato a uccidere: è un criminale per noi, ma dal suo punto di vista è in guerra».
Scrive che «l'islamismo radicale è il prodotto più diffuso sul mercato, il più eccitante, il più completo». Perché?
«Perché propone ideali molto eccitanti per dei giovani che non si riconoscono nelle società attuali.
Offre la possibilità di diventare un eroe per una causa assoluta, rischiare la vita, trovare una comunione fraterna nel combattimento, morire con gloria. È più eccitante rispetto al godimento temperato delle società democratiche e di quelle tradizionali».(traduzione di Marco Malandra)
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