La bomba minaccia un equilibrio precario

Se i pasdaran sceglieranno lo scontro diretto sarà guerra totale

La bomba minaccia un equilibrio precario

La bomba politico-mediatica sganciata da un Bibi Netanyahu presentatosi in diretta tv per illustrare, bacchetta alla mano, i piani nucleari sottratti dal Mossad negli archivi iraniani è ben più devastante dei raid di domenica notte sulle basi siriane di Hama e Aleppo costati la vita a tanti militari iraniani. Se l'attacco a quelle infrastrutture e la distruzione di centinaia di missili di provenienza iraniana poteva venir smentito o minimizzato da una Repubblica Islamica non ancora pronta ad affrontare Israele in un confronto militare diretto, l'affondo politico strategico di Bibi non può venir ignorato. Con quella stoccata Israele fornisce il pretesto perfetto a chi a Washington sostiene non solo la necessità di rivedere l'accordo sul nucleare del 2015, ma anche di favorire un cambio di regime a Teheran. I più in difficoltà in questo scenario, preludio d'un potenziale conflitto capace di innescarsi su quello siriano e allargarsi a tutto il Medioriente, sono gli alleati europei.

La soffiata d'intelligence diffusa da Netanyahu spiazza completamente il trio Macron-Merkel-May e azzera le sue possibilità di spingere Trump a una retromarcia politico-diplomatica. E anche Vladimir Putin, l'ultimo grande mediatore in grado di dialogare sia con Netanyahu sia con gli ayatollah, vede notevolmente ridimensionate le sue doti di paciere. Lo smantellamento dell'accordo sul nucleare voluto da Trump, ma reso praticamente obbligatorio dallo show televisivo di Bibi rappresenta quindi un altro passo verso la guerra totale. Fino a oggi Teheran ha rinunciato a rispondere alle incursioni israeliane in Siria per ragioni di opportunità strategica ed economica. Rimandare la rappresaglia serviva a guadagnar tempo, consolidare le posizioni in Siria e favorire l'eventuale ritiro americano preannunciato da Trump. Dietro le ragioni strategiche si nascondevano motivazioni economiche altrettanto serie. Evitare il ritorno alle sanzioni era fondamentale per un'economia iraniana azzoppata dai bassi prezzi del petrolio e dal costoso sostegno militare ai suoi alleati in Irak, Siria, Yemen e Afghanistan.

La morte dell'accordo sul nucleare cancella d'un colpo tutte le buone ragioni della moderazione iraniana restituendo l'iniziativa ai pasdaran e alle forze conservatrici pronte allo scontro diretto con Israele. E a gettar altra benzina sul fuoco contribuiscono le indiscrezioni di fonte israeliana, diffuse proprio ieri, secondo cui eventuali attacchi contro la popolazione dello stato ebraico in patria o all'estero saranno seguite da immediate rappresaglie sul suolo della Repubblica Islamica. A quel punto l'illusione di un conflitto limitato a Teheran e Gerusalemme avrebbe vita assai breve. Saltato ogni accordo le truppe americane, alleate d'Israele, diventerebbero il principale obbiettivo delle milizie sciite dalla Siria all'Irak. E l'Arabia Saudita già nel mirino dei missili dei miliziani Houti alleati dell'Iran nello Yemen - rischierebbe la rivolta di quelle tribù sciite che rappresentano il 15 per cento della sua popolazione, ma si concentrano in quelle regioni orientali cruciali per la produzione di petrolio.

Il rischio maggiore lo correrebbe però quel Libano in cui la milizia sciita di Hezbollah ha conquistato la piena egemonia politica arrivando ad azzerare l'influenza di un premier sunnita come Saad Hariri considerato un tempo l'uomo di fiducia di Riad.

Fiducia decisamente incrinatasi lo scorso novembre quando il principe saudita Salman non esitò a bloccare Hariri a Riad nel malriuscito tentativo d'indurlo ad affrontare con più determinazione Hezbollah e le altre forze filo-iraniane del Libano. Un Libano già inserito nel collimatore di Gerusalemme in quanto alleato dell'Iran e base di lancio per le decine di migliaia di missili di Hezbollah puntati sulle città israeliane.

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