I pentiti ritengono che la morte di Marcello Bruzzese, fratello del collaboratore di giustizia Biagio Girolamo, produrrà un «effetto domino», spingendo i mafiosi a scegliere di «non parlare», mentre lo Stato sostiene che il delitto rivela l'estrema debolezza delle organizzazioni mafiose.
Chiavi di lettura diverse per lo stesso omicidio, che la sera di Natale ha sconvolto il cuore di Pesaro, dove la vittima viveva con la famiglia. Ieri il ministro dell'Interno Matteo Salvini ha fatto tappa nella città marchigiana, dove ha partecipato in Prefettura al Comitato per l'ordine e la sicurezza.
«Ci sono indagini nelle quali non entro nel merito - ha sottolineato - perché sono in corso analisi e rilevamenti per verificare le identità dei due responsabili e le motivazioni del crimine. Conto che possano essere resi noti prima possibile. Ricordo ancora la persona uccisa aveva chiesto due anni e mezzo fa di uscire dal sistema di protezione». Salvini ha cercato anche di smorzare le polemiche sollevate dal caso, perché non si capisce come si possa proteggere una persona se il suo nome compare ovunque. «Voglio ricordare che sul territorio nazionale sono 1.200 i collaboratori e testimoni protetti e ampliando ai familiari parliamo di 6mila persone, con ingente utilizzo delle forze dell'ordine - ha aggiunto. Mafia, camorra e 'ndrangheta agiscono dietro le scrivanie. L'episodio di Pesaro è un gesto di estrema debolezza, non di forza. Un segnale di arroganza, di violenza ma di debolezza. Lo stato è più forte e, alla fine, la battaglia sarà vinta. Se pensano di spaventare qualcuno, si sbagliano».
Invece i collaboratori di giustizia spaventati lo sono, e non poco, perché le maglie della sicurezza sono troppo larghe. «Diciamoci la verità, io sono un morto che cammina - dice un ex mafioso di Bagheria che ha scelto di collaborare e oggi vive con la sua famiglia nel Centro Nord -. Il fratello del collaboratore che è stato ammazzato a Pesaro è solo il primo. Temo un effetto domino. Oggi, domani, o tra un mese, potrei essere ucciso anche io. O un mio familiare. Perché non siamo protetti. E se continua così, tanto vale tornare in Sicilia, senza alcuna protezione». Vuole restare anonimo perché ha mantenuto la vera identità e non vuole essere riconosciuto per non rischiare la e quella dei suoi cari. «Non sono affatto sorpreso - spiega -. Sapevo che prima o poi sarebbe accaduto. Sotto protezione è solo un modo di dire perché nessuno di noi, collaboratori e familiari, è realmente protetto. Io sono in una località segreta, è vero. Ma senza alcuna scorta, o un'auto che passa davanti casa. Sulla villetta, in periferia, c'è il mio nome e il mio cognome».
Ha mantenuto la vera identità per avere i contributi lavorativi, ma insieme alla moglie è costretto a cambiare luogo e scuola al figlio ogni volta che una dirigente scolastica, come accaduto a dicembre, o chiunque sappia che si tratta di pentito.
Anche Francesco Di Carlo, ex boss di Cosa nostra, si sente abbandonato dallo Stato e vive all'estero sotto falso nome. «Nonostante io sia un libero cittadino, che ha scontato la pena prima ancora di collaborare con la giustizia - racconta - faccio finta di essere un boss latitante. Non non mi sento sicuro e il Servizio di protezione non funziona bene. I fatti di Pesaro lo dimostrano».
Per il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra, invece, l'omicidio di Bruzzese dimostra che non è stato fatto abbastanza per proteggere lui e i
parenti e per discutere i «punti oscuri» di questa vicenda ha convocare in commissione Antimafia, per i primi giorni di gennaio, il sottosegretario Luigi Gaetti e il generale Paolo Aceto, del servizio centrale di protezione.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.