Caos Libia, bruciato l'ambasciatore Perrone. L'Italia pensa a De Santis, più vicino a Haftar

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Caos Libia, bruciato l'ambasciatore Perrone. L'Italia pensa a De Santis, più vicino a Haftar

Ambasciator non porta pena. Andatelo a raccontare a Giuseppe Perrone, l'(ex o quasi) ambasciatore a Tripoli liquidato come un nemico della Libia dal generale Khalifa Haftar e scaricato, subito dopo, dal ministro degli esteri Enzo Moavero Milanesi pronto a sacrificarlo pur di ri-bilanciare i rapporti e salvare i nostri interessi. E così ora l'ambasciata di Tripoli si prepara al gran ritorno di Guido De Sanctis, il diplomatico spedito in tutta fretta a Bengasi nel marzo 2011 per convincere i capi dei «rivoluzionari» a non tagliare i ponti con un'Italia considerata, allora, troppo amica di Gheddafi.

A quel tempo De Sanctis se la cavò egregiamente diventando uno dei diplomatici più in vista della nuova Libia. Così in vista che nel gennaio 2013 i gruppi islamisti non esitarono a tentar di ucciderlo pur di ridimensionare l'inatteso ritorno italiano. A sette anni di distanza l'ex console, passato nel frattempo dal Qatar dove s'è guadagnato i gradi di ambasciatore, si prepara a tornare in Libia con una missione analoga. Il suo mandato nasconde infatti una doppia finalità. La prima è garantire lunga vita a Serraj sfruttando i contatti sviluppati in Qatar per dialogare con i capi-milizia jihadisti. Il secondo, più importante, è gestire le relazioni con Haftar e preservare gli interessi italiani anche nel caso di defenestramento dell'esecutivo di Tripoli per mano del generale.

All'origine di questo complesso rivolgimento vi è il fatale passo falso di Giuseppe Perrone protagonista ad agosto di un'avventata intervista in arabo alla televisione Libya Channel in cui si criticavano, pur senza menzionarle esplicitamente, le elezioni previste dalla Francia e dal generale Haftar per il prossimo 10 dicembre (data che proprio ieri il Consiglio di Sicurezza dell'Onu ha invece disconosciuto). Grazie a quell'intervista i media della Cirenaica imbeccati dagli uomini di Haftar e dai suggeritori dell'Eliseo hanno facile gioco nel delegittimare il nostro ambasciatore presentandolo come il simbolo di un'Italia apertamente schierata con Tripoli. Tanto che Enzo Moavero Milanesi non esita a rimpatriarlo tenendolo a Roma, con la scusa della sicurezza.

In questo serio pasticcio diplomatico le colpe però non sono solo di Perrone. Tra giugno e agosto il governo giallo-verde, concentratissimo sulla questione migranti, tralascia la definizione di una linea politica rivolta non solo alla difesa degli interessi nazionali concentrati in Tripolitania (gas, petrolio e contenimento dei migranti), ma anche al recupero dei rapporti con un Haftar assai corteggiato da Parigi. In tutto questo i rapporti con il generale sono resi più difficili da un ulteriore sgarbo, ovvero dalla scelta di Enzo Moavero Milanesi di discutere solo con Tripoli il ripristino del cosiddetto «Trattato d'amicizia» siglato a suo tempo da Berlusconi e Gheddafi.

E in questa complessa situazione Perrone non era neppure l'uomo giusto al posto giusto. Mandato a Tripoli dopo il traghettamento di Fayez Al Serraj era soprattutto l'esecutore della linea dettata da Marco Minniti, il ministro dell'Interno a cui Renzi e Gentiloni delegavano in esclusiva il dossier Libia.

E infatti tra l'agosto 2017 e lo scorso febbraio Minniti aveva riservato a sé il compito di incontrare per quattro volte Haftar nel tentativo di strapparlo dalle braccia della Francia. Un tentativo a cui questo governo aveva dato nei primi tre mesi scarsa continuità lasciando a Perrone dei compiti che travalicavano, secondo voci della Farnesina, le sue competenze e le sue capacità.

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