Milano -Le tre carte erano lì, da sempre, infilate nella montagna di carte dell'inchiesta. Erano le carte che scagionavano Luigi Pelaggi, dirigente del ministero dell'Ambiente, commissario straordinario per la bonifica di uno dei luoghi più inquinati d'Europa, la ex raffineria Sisas di Pioltello. Un rapporto della Guardia di finanza spiegava chiaramente che quei 700mila euro di cui si parlava nelle intercettazioni non erano finiti né a Pelaggi né a nessun altro pubblico ufficiale; e due testimonianze scagionavano esplicitamente e direttamente il manager pubblico. Non c'era stata nessuna corruzione, insomma. Ma Pelaggi è stato spedito in galera e tenuto dietro le sbarre per cinque mesi, dagli stessi pubblici ministeri che avevano in mano i documenti che lo scagionavano. Una sfilza di giudici e tribunali del riesame hanno respinto la sua scarcerazione, e anche loro avevano a disposizione il rapporto della Guardia di finanza: o almeno avrebbero dovuto averlo, anche se ora il giudice che dispose l'arresto spiega che a lui quella carta non fu mai mostrata. Solo alla fine dell'inchiesta, quando la Procura di Milano ha depositato tutte le carte, la documentazione decisiva è stata messa a disposizione anche dei difensori: ma quasi invisibile, infilata in una sottocartelletta in un faldone intestato a un altro imputato.
La inverosimile - ma drammaticamente vera - vicenda finisce con la Cassazione che trasferisce per competenza tutto a Roma, e qui un altro pubblico ministero prendendo finalmente atto di ciò che doveva essere chiaro fin dall'inizio chiede e ottiene la archiviazione dell'accusa di corruzione a carico di Pelaggi: «Le indagini esperite, compendiate nelle note della Gdf del 8.11.11 e 10.10.11 hanno tracciato il flusso finanziario di 700mila euro evidenziano come quel denaro non sia finito nelle disponibilità di Pelaggi o comunque di un pubblico ufficiale». Le date sono importanti, perché dicono che fin dal 2011 la Procura di Milano sapeva dell'innocenza di Pelaggi. Nel corso delle indagini due testimoni, Guido Albi Marini e Nicola Iaccarino, scagionano Pelaggi. Per cinque volte, tra il giugno 2011 e l'aprile 2012, Pelaggi chiede di essere interrogato, ma i pm non lo ricevono: in compenso, il 5 febbraio 2013 chiedono il suo arresto, che viene eseguito quasi un anno dopo, il 24 gennaio 2014, e Pelaggi finisce in un carcere di alta sicurezza. I suo avvocati, Antonio Bana e Valerio Spigarelli, chiedono di spostarlo almeno in un carcere ordinario, ma il pm rifiuta a causa delle pericolosità del soggetto. Per cinque volte gip e tribunale del Riesame di Milano rifiutano la scarcerazione; e anche a Roma, dopo il trasferimento del fascicolo, per due volte il gip rifiuta gli arresti domiciliari. Eppure la carta è sempre lì. Ma ogni volta che il malloppo gigantesco dei documenti si sposta da un ufficio all'altro cambiano l'indice, la numerazione, il contenuto dei faldoni.
Così Pelaggi si fa cinque mesi di galera, unico elemento d'accusa una intercettazione in cui due coindagati dicono di lui che «come commissario è straordinario». Il riscontro? «L'intenzione manifestata di acquisire un immobile di rilevante valore nel periodo considerato».
Su questa base tre pubblici ministeri milanesi Paola Pirrotta, Paolo Filippini e Piero Basilone, chiedono e ottengono il suo arresto: la richiesta è controfirmata dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo, sulla carta c'è anche il timbro di un altro procuratore aggiunto, Ilda Boccassini: ma curiosamente manca la firma autografa.
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