La Cina spegne i videogame. Il gioco? È nemico del regime

I minori non potranno giocare più di 3 ore a settimana. "Tutelata la salute". Ma il problema è la libertà on line

La Cina spegne i videogame. Il gioco? È nemico del regime
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Non so quante volte ho letto la predica di qualche sociologo o psicologo sul fatto che i videogiochi fanno male, fanno diventare violenti, eccetera (un po' come certi film che una volta facevano diventare ciechi), ma stavolta è diverso, sebbene le motivazioni siano interessanti. In pratica la Cina se ne è uscita con un nuovo provvedimento liberticida che riguarda proprio i videogames: gli utenti cinesi di età inferiore ai diciotto anni potranno giocare solo un'ora al giorno, dal venerdì alla domenica, dalle 20 alle 21, per tetto massimo di tre ore settimanali.

Dal punto di vista della dittatura cinese non c'è nessuna novità, ma è significativa la motivazione, ossia perché così «sarà protetta più efficacemente la salute fisica e mentale dei minori». Di sicuro qui da noi occidentali liberi, che viviamo in paesi democratici, una motivazione del genere potrebbe non parere così assurda, perché il tormentone contro i videogiochi torna a intervalli regolari (sebbene poi le nuove ricerche neuroscientifiche abbiano provato che proprio male non fanno, anzi ampliano alcune aree cerebrali, soprattutto i nuovi videogiochi). Davvero i cinesi sono così preoccupati della salute? Perché si ha l'impressione che la parola chiave non sia «salute», ma «online».

Già, perché oggi si gioca online, e io stesso gioco online. In particolare chi come me è cresciuto con i videogiochi, ossia chi ha intorno ai cinquant'anni, è normale averci sempre giocato, e continueremo a giocarci per sempre, tra lo stupore di chi ha più di sessant'anni e di chi ne ha meno di venticinque (entrambe le fasce di età ti dicono: «ma come, a cinquant'anni giochi ancora ai videogiochi?»).

Personalmente gioco da quando avevo quindici anni almeno tre ore al giorno, altrettante ore leggo, il resto del tempo scrivo. In trent'anni ho letto migliaia di libri, ne ho scritti quindici, ho giocato migliaia di ore, e il mio cervello sta bene. Siamo partiti da un gioco che si chiamava Pong (due stanghette a rappresentare delle racchette e un grosso pixel quadrato per la pallina), abbiamo comprato ogni console, fino a ritrovarci oggi, con una Playstation (4, perché la 5 non si trova) o una Xbox. La differenza è che prima non si giocava online, si giocava ognuno per conto proprio, oppure in sala giochi (che per un misantropo precoce come me non era una cosa bella, e a volte si facevano brutti incontri, ma il fascino dei videogiochi vinceva).

Cosa significa giocare online? Significa giocare con avversari reali, collegati allo stesso gioco, alcuni dei quali giocano con te, come per esempio in Warzone, la battle royale del momento, dove centocinquanta giocatori si paracadutano su un'isola (Verdanks) come soldati divisi in team e si sparano finché non resta un solo team, il vincitore, tu e i tuoi compagni. Per giocarci non serve solo manualità e riflessi ma anche molta tattica, strategia, e comunicazione.

È indispensabile parlare, online. Si parla con chiunque, non solo con i tuoi amici, entri in gioco e giochi con altre persone di ogni età (tranne gli over sessanta), italiani, o tedeschi, o francesi, o americani, o magari cinesi, i quali però adesso, se minorenni, potranno giocare poco. Quantomeno online, perché non online possono giocare quanto vogliono, strano eh? Per un motivo di salute (campato per aria) il regime cinese mette dei limiti proprio all'online, ossia a dove hai più possibilità di farti amici, socializzare, scambiare idee, sviluppare uno spirito di squadra, magari anche un senso critico per il posto in cui si vive. Insomma, videogiochi, luogo virtuale di libertà.

Infatti la mia preoccupazione principale è quando avrò l'artrosi o mi si abbasserà la vista, ma abituatevi fin da adesso a avere dei nonni come me magari attaccati al catetere ma di sicuro ancora attaccati alla Playstation. Perché noi non siamo cinesi.

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