Politica

Il colpevole che non vuole sconti di pena

di Barbara Benedettelli

«R inuncio all'appello. Merito l'ergastolo». Una grande lezione quella di Carlo Lissi, che nel 2014 a Motta Visconti uccise la moglie e i due figli piccoli. L'auto-certezza della pena supera la debolezza del sistema giudiziario. La presa di coscienza individuale del reo sorpassa quella di un sistema che di frequente deprezza la vita. La scelta di Lissi è una ventata di aria fresca che apre tre questioni cruciali: l'equità della pena; i gradi di giudizio; la rieducazione carceraria. Se Lissi è arrivato a una presa di coscienza della gravità del reato, significa che il lavoro su di lui nel carcere di Pavia funziona. E che ci sono strutture penitenziarie in cui si lavora per far entrare le persone dentro l'immensità delle proprie colpe, unica via che permette la trasformazione interiore necessaria a singolo e società. Nel carcere di Opera ho incontrato detenuti che avevano compiuto un omicidio e oggi sono persone nuove grazie al Sicomoro. Un progetto di riabilitazione scisso dalla premialità, nato da Prison Fellowship International, approdato in Italia nel 2009 grazie a Rinnovamento nello Spirito Santo e attuato dal governo Berlusconi nel 2010. Progetto che mette al centro la vittima e che auspico possa entrare di default in tutte le carceri italiane.

La seconda questione riguarda i tre gradi di giudizio, prerogativa del nostro Paese. In Inghilterra il ricorso all'appello è limitato dalla concreta possibilità di un aggravio di pena. Da noi, invece, quando l'appello lo richiede solo l'imputato, la legge vieta la reformatio in peius, l'inasprimento della pena. E molti vi accedono per una sentenza «attenuata». Ma quando ci troviamo di fronte a flagranza di reato o evidenza della prova con confessioni piene, non sarebbe più corretto, rispetto alla grandezza del bene leso, impedire o rendere più difficile il ricorso all'appello andando spediti in Cassazione?

E qui si apre la terza questione: l'equità della pena. Prendendo le parole di Michael Sandel, «la giustizia non riguarda solo il modo giusto di distribuire le cose, ma anche il modo giusto di valutarle». Che valore diamo alla vita? In Italia puoi tentare un omicidio, andare ai domiciliari e da lì, un anno dopo, puoi finire il lavoro. D'altra parte puoi essere indagato per corruzione, arrestato senza prove e trattenuto in carcere, per poi ricevere tante scuse, ma con la reputazione rovinata. È giusto? C'è chi ritiene l'ergastolo «morte viva». Ma solo quello ostativo, che pure offre vie d'uscita, è perenne.

Non è il caso di Lissi: in media dopo quindici anni si può avere la libertà condizionale e dopo circa altri dieci la pena è considerata espiata. Lui non ha commesso un suicidio della libertà. Forse si è rivelato consapevole che l'ergastolo vero è quello del dolore. Si trova dentro di lui ovunque vada e dentro i familiari delle vittime.

E questa è la lezione più importante.

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