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Conte non può stare sereno

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Hanno esultato tutti, ieri pomeriggio. Nicola Zingaretti e i suoi per aver evitato lo scoppolone elettorale. Hanno perso una roccaforte da sempre rossa come le Marche, ma hanno tenuto due Regioni importanti come la Campania e la Puglia (nonostante debbano la vittoria a due outsider mal sopportati come Vincenzo De Luca e Michele Emiliano) e soprattutto non hanno permesso alla leghista Susanna Ceccardi il colpaccio. Per la seconda volta, dopo l’Emilia Romagna, hanno sudato freddo ma ce l’hanno fatta. Scampata la paura, quindi, eccoli ad attestarsi vittorie che fino al giorno prima non credevano possibili. Persino Luigi Di Maio è salito sul carro del vincitore. È subito corso a intitolarsi la vittoria (schiacciante) al referendum. Il taglio dei parlamentari, d’altra parte, è una delle battaglie storiche del Movimento 5 Stelle. Poco importa se il partito è del tutto sparito dal radar della politica locale dove da un anno e mezzo non tocca più palla.

A fronte di questi risultati, tutti i leader giallorossi hanno assicurato che dalla consultazione elettorale il governo esce rafforzato. Il premier Giuseppe Conte può, dunque, star sereno? Mica tanto. Da un po’ di tempo a questa parte gli equilibri interni alla maggioranza sono mutati: è vero che le schiere grilline sono numericamente più importanti, ma è anche vero che quei numeri non rispecchiano più il sentiment del Paese. Il Partito democratico lo sa e lo fa pesare. Non a caso, non appena i risultati si sono fatti netti, hanno messo all’ordine del giorno due punti che i grillini mal digeriscono: l’accesso ai fondi del Mes e l’abolizione dei decreti Salvini. Sul primo i pentastellati non vogliono sentir ragioni: prendere soldi dal fondo Salva Stati andrebbe a sconfessare un altro dei punti cardine del movimento. Non che di solito si facciano problemi a farlo (l’abolizione del doppio mandato è stata solo l’ultima imbarazzante piroetta), ma agli occhi dei loro elettori potrebbe apparire imperdonabile. Per quanto riguarda i decreti Sicurezza, quelli voluti dal leader leghista quando era al Viminale e votati dagli stessi grillini, molti Cinque Stelle (le frange più rosse che pendono dalle labbra di Alessandro Di Battista, tanto per intenderci) sono favorevoli all’abolizione. Altrettanti, però, la pensano al contrario. Si rischia, insomma, un’altra frattura.

Anche il capitolo riforme, rese necessarie dal taglio dei parlamentari, rischia di essere l’ennesime occasione di divisioni tra i giallorossi. Ci sarebbe da ripensare la legge elettorale. I grillini premono già sul ritorno alle preferenze, ma il Pd non ne vuol sentir parlare. Poi c’è il nodo della soglia di sbarramento. I dem, spalleggiati dai renziani, vorrebbero superare il bicameralismo paritario, ma i pentastellati non sono d’accordo. Bisogna poi ridisegnare i collegi e dare un nuovo assetto del parlamento. E che di dei dossier economici? Ci sono la sessione di Bilancio e a gennaio la Commissione Ue a cui bisognerà consegnare i progetti del Recovery Fund. Ci sono una barcata di soldi da allocare e non sarà facile mettersi d’accordo. Se i duellanti dovessero farcela a non rompere fino alla prossima estate, allora per Conte è fatta.

A fine luglio scatterà, infatti, il semestre bianco, periodo in cui non si possono sciogliere le Camere. A quel punto il collante sarà l’elezione del nuovo capo dello Stato nel 2022. Una partita troppo ghiotta per i giallorossi che, sin da quando hanno siglato l’alleanza, hanno detto di voler gestire in prima persona.

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