Dice che no, oggi non ha più paura di «parlare» né di «metterci la faccia» nel raccontare questa storia di un amore divenuto violenza e «sottomissione». Di mura domestiche trasformate in una prigione di minacce e abusi psicologici per il suo ostinarsi a voler vivere da donna libera. Secondo quella definizione, «all'occidentale», che a occhi annebbiati dal possesso e intrisi di un certo radicalismo religioso appare «peccato». Alla, ucraina, 33 anni e musulmana, accetta di raccontarla al Giornale perché crede che «un atto di coraggio» possa servire da esempio ad altre donne talmente «umiliate da non avere la forza di reagire». Come loro, «mi voleva anche lui». C'è una premessa: «Sono e resto musulmana, prego, rispetto il ramadan. Ma dopo tutto questo il velo non lo porto più». E una sfumatura di commozione che accartoccia la voce: «Per me non è più un simbolo di fede, ma di sottomissione all'uomo. Mi sono ribellata e me ne sono liberata».
«Lui» è il suo ex marito, un marocchino giunto a Como da Lampedusa, dopo aver attraversato il Mediterraneo su un barcone. A un anno e mezzo dal matrimonio lo ha denunciato per maltrattamenti in famiglia e ora il processo in cui è imputato è appena iniziato in Tribunale a Como.
Alla in Italia ci era arrivata molto prima, dall'Ucraina. In tasca una laurea in Economia e un master in amministrazione e contabilità. Le difficoltà, i corsi per imparare la lingua, poi il permesso di soggiorno, un lavoro a tempo indeterminato come assistente familiare per aiutare la sua, di famiglia, da maggiore qual è di cinque figli. Poi, la conoscenza di quel ragazzo gentile, educato, con una storia difficile ma in fondo così simile alla sua. L'amicizia che diventa matrimonio e lui che ottiene il permesso di soggiorno «senza lavorare». Eccolo, il momento della metamorfosi. A un mese dalle nozze, il primo schiaffo. «Cambia tutto». Basta con i corsi di italiano, con le lezioni per prendere la patente, con quella sua fissazione di diventare mediatrice culturale, e con l'abbigliamento così «scoperto».
«Non voleva che io facessi nulla. Dovevo stare a casa. Le offerte di lavoro che ricevevo via mail come mediatrice culturale, le cestinava senza che io potessi vederle. Avevo paura. Anche di parlare». Parlare? «La donna deve stare zitta, mi ha detto una volta per giustificare una lite. Non dovevo fare domande, tornava alle tre di notte, non potevo chiedere dove era stato fino a notte fonda. Non potevo reagire alle sue imposizioni». Invece Alla ha reagito, e oggi confida di non tenere più «coltelli grandi» da cucina in casa. Quello che lui le ha puntato contro, « Stai zitta o non mi controllo», quando gli ha detto che sarebbe andata dai carabinieri, ce l'ha ancora davanti agli occhi. Nonostante le minacce, con il cuore in gola e terrorizzata, si è rivolta a un'associazione, Telefono Donna, e se ne è andata per davvero.
Ora che con la sua bambina vive in un ambiente protetto, non ha più paura. «Ho ricominciato ad avere voglia di vivere, è la mia libertà». Quella che tante donne spesso vittime di una visione maschile integralista, religiosa o meno, non vedono più.
Ma la religione «tira fuori il meglio delle persone, non il peggio». Ne è certa, Alla, «non può essere l'Islam» il germe di tutto, ma un mix di «ignoranza e tradizioni patriarcali trasmesse attraverso generazioni. Io ho tolto il velo. Non ho perso la mia fede».
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