Cristiani gettati in mare: in cella i migranti islamici

Condanne per 120 anni: 3 nigeriani e 6 ghanesi buttati dalla barca perché non pregavano Allah

Cristiani gettati in mare: in cella i migranti islamici

Nell'aprile del 2015, in rotta verso le coste siciliane, condannarono a morte tre nigeriani e sei ghanesi e li gettarono in mare uno a uno. Secondo l'accusa lo fecero perché quei nove passeggeri di un barcone stracarico di immigrati erano cristiani. Per la terza sezione della Corte d'Assise di Palermo sei dei 15 imputati indicati dalla procura del capoluogo siciliano devono scontare 18 anni di carcere ciascuno per omicidio volontario plurimo, 120 in totale, ma è stata esclusa l'aggravante dell'odio religioso. Eppure è questo al centro delle testimonianze rese dai cristiani sfuggiti alla tragica morte lottando e dimenandosi, per poi, alla fine, formare una catena umana contro gli assalitori, tutti musulmani. «Una lite c'è stata ma non per motivi religiosi». Questa la tesi della difesa che addebita il surriscaldamento degli animi a bordo a seguito di un'avaria al natante.

Il processo termina con la condanna di un altro imputato (lo scafista) a 4 anni di reclusione per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e a una multa di un milione e 200mila euro. A tutti i condannati sono state concesse le attenuanti generiche. I restanti otto imputati sono stati assolti. Saranno scarcerati ed espulsi. Per tutti la pubblica accusa aveva chiesto l'ergastolo. Fra 90 giorni si conosceranno le motivazioni della decisione della Corte d'Assise che chiarirà il perché dell'esclusione del movente dell'odio religioso indicato dai superstiti di quel viaggio della speranza effettuato nell'aprile del 2015 dalle coste libiche alla volta della Sicilia.

«Sul gommone eravamo divisi in gruppi per etnia» spiegò agli investigatori uno dei superstiti cristiani, Agyamang Kweasi. Da una parte i clandestini del Senegal, della Costa d'Avorio e di altri Paesi africani che parlano francese. Dall'altra ghanesi e nigeriani in prevalenza non musulmani».

Domenica 12 aprile i cristiani iniziano a pregare e alle 21 si scatena l'odio religioso. Quegli infedeli andavano eliminati. E allora calci e pugni contro quei passeggeri colpevoli di avere un altro credo. «Fino a quando cominciano a gettare in mare alcuni di noi (...) sei ghanesi e tre nigeriani (...). Li ho visti morire in acqua». Il racconto dei superstiti, scampati per un pelo alla morte, è agghiacciante. Si apprende che i condannati a morte hanno cercato di difendersi come potevano. Persino ferendo a morsi gli aggressori. È il superstite Augustin Kwadwohona a riferirlo agli inquirenti, riconoscendo il suo aggressore tra le foto segnaletiche che gli vengono poste dinanzi. E avalla la sua testimonianza con un particolare: «Quell'uomo ha un alluce ferito con un morso da un cristiano». L'ultimo tentativo vano di salvarsi. Ma muore annaspando tra le onde.

Un altro superstite, Jamal Osman, conferma il motivo dell'aggressione. «Un malese mi disse che siccome non pregavamo Allah e non credevamo nello stesso Dio dovevamo finire in mare». Per fortuna a un certo punto ecco apparire all'orizzonte il mercantile Ellensbors, che giunge in soccorso degli immigrati. Carnefici e superstiti vengono trasbordati sulla nave dei soccorritori per essere condotti a Palermo. È qui che i testimoni cominciano a raccontare l'orrore vissuto.

E il procuratore aggiunto di Palermo Maurizio Scalia, che coordina un gruppo specializzato sulle tratte e l'immigrazione clandestina, apre la delicata inchiesta. E le condanne danno ragione alla pubblica accusa del lavoro svolto, accogliendo la tesi che non si sia trattato di un fatto colposo.

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