Crolli a Pompei, spunta pure la camorra

Dia, Procura e carabinieri confermano: tra gli scavi c'è l'ombra dei clan

Crolli a Pompei, spunta pure la camorra

Le organizzazioni per bene sono sempre tenute a «fare pulizia» al proprio interno. Ogni volta che a Pompei la camorra ha tentato di infiltrasi tra i rappresentanti dei lavoratori (o tra gli stessi lavoratori) del sito archeologico ha trovato l'opposizione di una maggioranza onesta, che con i clan non vuole avere nulla a che fare. Ciò non toglie che alcune famiglie malavitose (in primis i Casalesi e i Cesarano) siano comunque riuscite a mettere le mani su attività legate all'area archeologica. Sindacato e soprintendenza a volte non hanno visto, altre volte hanno finto di non vedere. Un giro di affari che in passato non ha mancato di coinvolgere anche un «terzo livello», fatto di manager e colletti bianchi che la magistratura ha condannato duramente. Ma dal 2014, anno dell'arrivo a Pompei del soprintendente Massimo Osanna, l'aria è cambiata: sintomatica del nuovo clima la decisione di affidare a un generale dei carabinieri la direzione generale del «Grande Progetto Pompei». A garantire la correttezza di tutte le operazioni dell'«azienda» Pompei è stato fino a dicembre 2015 il generale Giovanni Nistri che poi ha ceduto il testimone al suo collega Luigi Curatoli. Con Nistri e Curatoli la camorra ha capito bene che doveva tenersi alla larga dagli scavi. Ma in passato non sempre è stato così. Anzi, diciamo che i clan spesso si sono presentati all'«incasso», forti di un diffuso clima di impunità. Tutto riscontrabile, nero su bianco, da un rapporto Dia datato 2014 («Il rischio è che il parco archeologico si trasformi in un enorme banchetto per i clan più spregiudicati e agguerriti della Campania», scriveva la Direzione distrettuale antimafia di Napoli). Nello stesso periodo anche una informativa dei carabinieri aveva ipotizzato un coinvolgimento dei clan nella gestione dei punti vendita abusivi di bibite e cibo dentro e fuori gli scavi, oltre al racket degli ambulanti, dei parcheggiatori e delle guide abusive». Erano gli anni in cui la Procura di Torre Annunziata era guidata dal giudice Diego Marmo che poi, in epoca più recente, abbandonata la toga, ha ricoperto il ruolo politico di assessore alla Legalità (con delega alla difesa del patrimonio archeologico e ambientale). È proprio Marmo a fare cenno in un'intervista del 2014 alla Stampa al rischio di infiltrazioni camorristiche anche in ambienti - diciamo così - «istituzionali»: «La sera in cui crollò la Schola Armaturarum mi chiamò il colonnello dei carabinieri come atto di cortesia per annunciarmi del crollo avvenuto. Ebbi subito la sensazione che qualcosa non funzionava. La notizia aveva fatto il giro del mondo, ma il pm di turno non fu neppure informato. Quella sera stessa feci sequestrare l'area. Scoprii così che il sito archeologico era una discarica di detriti di amianto e che i lavori del Teatro Grande nascondevano accordi corruttivi che coinvolgevano anche il commissario straordinario Fiore».

Oggi le emergenze sono di altro tipo: Osanna ha rilanciato il sito ponendo al centro la tutela dei diritti dei visitatori. Ma gli scontri con i sindacati più oltranzisti continuano, così come i crolli «vendicativi», più o meno «pilotati», delle domus. Sotto lo sguardo interessato anche della camorra.

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