Draghi ancora in campo ma se resta da solo non vincerà la battaglia

Attese oggi dalla Bce altre misure anti-crisi Servono però meno regole e più investimenti

Draghi ancora in campo ma se resta da solo non vincerà la battaglia

Sembra di vederli, quelli che tirano Mario Draghi per la giacchetta chiedendogli nuove misure per puntellare Casa Europa. Lo sforzo da oltre 1.000 miliardi di euro compiuto finora ancora non basta. Lui, forse, nella riunione di oggi della Bce, li accontenterà. Anche se cominciano a scarseggiare, munizioni ce ne sono ancora. Il ventaglio di opzioni è sufficientemente ampio: un'estensione da marzo a settembre 2017 del piano di acquisto titoli pubblici e privati da 80 miliardi al mese; un innalzamento, dal 30 al 50%, dello shopping consentito su ogni singola emissione obbligazionaria; un inserimento anche dei titoli azionari nel «canestro» del quantitative easing in salsa europea; un ritocco verso il basso dei tassi sui depositi (ora al -0,40%) presso la Bce stessa. Le ultime due ipotesi sono le meno praticabili, la prima perché avrebbe il sapore di una misura da ultima spiaggia, l'altra perché invelenirebbe ancor più i rapporti - già deterioratissimi - con banche, assicurazioni e fondi pensioni tedeschi.

Draghi potrebbe però decidere di mantenere lo status quo, e rimandare quindi il varo del QE.3 a dicembre, in modo da tenersi le mani libere di agire una volta «digerito» il referendum costituzionale in Italia e le presidenziali americane. È probabile che lo faccia se le nuove previsioni su crescita e inflazione, che saranno comunicate sempre oggi, dovessero mostrare l'impatto marginale sull'eurozona provocato finora alla Brexit. Tuttavia, indipendentemente da come si muoverà l'ex governatore di Bankitalia, l'azione dell'istituto di Francoforte ha mostrato i propri limiti in tutti questi mesi di iperattivismo monetario e di uso di strumenti non convenzionali. Eurolandia resta alle prese con una crescita anemica (+0,3% nel secondo trimestre) il cui effetto collaterale più evidente è un tasso di disoccupazione al 10,1%, che si traduce in oltre 16 milioni di persone senza un lavoro; inoltre, i prezzi continuano a flirtare con la deflazione (+0,2% in agosto) e sono sideralmente distanti dal target del 2% stabilito dalla Bce. Draghi ha più volte lamentato i ritardi nelle riforme strutturali, arrivando a invocare una cessione di sovranità da parte dei Paesi membri per accelerarne il ritmo. Può darsi abbia ragione; di sicuro è stato lasciato da solo a combattere una battaglia che richiederebbe ben altro sforzo, allargato e condiviso. Una sorta di new deal, che niente ha a che vedere col fantomatico piano Juncker per la crescita, finalizzato a combattere seriamente la cronica anemia da domanda che affligge l'eurozona, cominciando magari da un fondo di solidarietà per la stabilizzazione, passando per il fondo unico per le banche, per arrivare alla mutualizzazione del debito attraverso gli Eurobond. E poi, le regole. Alcuni sostengono che le riforme strutturali decise dalla Germania abbiano, alla fine, portato solo ai picchi di surplus delle partite correnti, con un 8,9% del Pil a fine anno in aperta violazione delle norme Ue. Un atteggiamento egoistico, quello di Berlino. Che, invece di alzare i salari e aumentare la spesa, è sempre pronta a chiedere agli altri il rispetto dei parametri di Maastricht.

Numeretti magici che andrebbero forse rivisti, a partire dal rapporto deficit-Pil al 3%, che peraltro Paesi come la Francia si guardano ben dal rispettare. Insomma: diventare più simili agli Stati Uniti. Altrimenti la spinta distruttiva di populismi e nazionalisti farà implodere l'euro. Dopo il ceffone rimediato in Meclemburgo, è ora che Frau Merkel se ne renda conto.

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