La dura legge di casa Pd: chi tocca il leader muore

Oltre ai big cresciuti nel Pci, Renzi ha fatto fuori molti ex popolari. L'ultimo della lista è Pistelli, che voleva diventare ministro degli Esteri: troppe vecchie ruggini

La dura legge di casa Pd: chi tocca il leader muore

Chi tocca i fili muore. Ma solo «certi» fili; l'accanimento terapeutico Matteo Renzi riservandolo ai vicini o vicinissimi, ai temibili o temibilissimi, mai agli altri. «Sa che il potere politico si fonda, come spiegava Machiavelli, sull'amore o sulla paura, non sulla stima». A parlare in maniera così «interna» del sistema di pensiero renziano è Lapo Pistelli, autentico pigmalione di Matteo, da lui conosciuto nei comitati Prodi a Lignano nel '95 e assunto come portaborse quando diventò deputato nel '96. «Più o meno gli davo due milioni e mezzo il mese».

Soldi mal spesi. Pistelli è, allo stesso tempo, il primo e l'ultimo dei «rottamati» da Renzi. Già viceministro degli Esteri, con carriera parlamentare sempre volta alle questioni internazionali, era il candidato naturale alla successione della Mogherini. Per lui si è speso persino Napolitano. Com'è finita lo si sa: con il coniglio-Gentiloni sfoderato all'ultimo momento dal cilindro di Palazzo Chigi. Schiaffo che riporta al primo «tradimento», quando il giovane portaborse - nel frattempo cooptato dal Pd fiorentino alla presidenza della Provincia - osò sfidare proprio Pistelli alle primarie fiorentine subissandolo di preferenze. Sulla porta del comitato elettorale, dopo il trionfo, Matteo non rinunciò all'onta di un cartello: «Chiuso per manifesta superiorità». Inimicizia irriducibile, dunque, e racchiusa nello stretto rapporto di quegli anni alla Camera. Senza tralasciare il dettaglio che, dal '94 al '99, Pistelli condivideva una casa in via dei Leutari con il giovanissimo Enrico Letta.

Le tracce conducono così verso gli ultimi, travagliati anni della Margherita. Faide sotterranee, tregue armate e sgambetti reciproci, Marini che non riesce a dare la spallata definitiva a Rutelli, Rutelli che riesce a imporre come tesoriere il suo fidatissimo Lusi. Tre le componenti: i prodiani di Parisi, gli ex-dc di Marini, i rutelliani. A guardare bene, la «black-list» di Renzi parrebbe trarre le mosse da lì, dal voltafaccia di un paio di mariniani, Franceschini e Fioroni, alleatisi con Rutelli. Prova ne sia l'attuale mappa dei vincenti nel governo Renzi, e i suoi alleati più certi: Roberto Giachetti, alter-ego di Rutelli, Filippo Sensi, Paolo Gentiloni e Michele Anzaldi, in epoche diverse portavoce rutelliani, Franceschini, saldo alla Cultura, Fioroni, scelto come presidente della commissione d'inchiesta su Moro. E poi: i sottosegretari Baretta (Economia), Bocci (Interno), Bobba (Lavoro), Giacomelli (Sviluppo economico), Gozi (Palazzo Chigi). E naturalmente «margheritini» di rito rutelliano sono anche Delrio e Guerini.

Guelfi fatti fuori dai Ghibellini «neri» (posto che Matteo sia Dante), storia infinita di Strapaese che sta modificando radicalmente la geografia del Pd e dell'Italia. Sotto la mannaia di Renzi cade perciò Pistelli, e ci rimette le penne il pisano Letta junior. E Marini, bruciato quando era già sullo scalone del Quirinale. E Rosy Bindi, toscana di Sinalunga, vestale prodiana restia a «vendersi» a Rutelli.

Ma qui si entra in un'altra delle narrazioni renziane, quella che - nei racconti di Pistelli - è stato «il primo tempo della battaglia di Matteo: il bombardamento sul suo quartier generale, che è tanto piaciuto ai media, e cui alcuni leader hanno abboccato». La questione generazionale, dunque, in un Paese immobile e in un partito ultra-gerontofilo. Nemica del popolo la Bindi, e quindi il temibile D'Alema, che pure aveva «sponsorizzato» Renzi (per conto di Pistelli) tra gli ex ds nella corsa alla Provincia di Firenze. Smacchiato con un paio di colpi di spazzola anche l'ultimo brontosauro Bersani. Della nomenklatura post-comunista sono stati salvati i meno pericolosi, o i più lesti nel cambio casacca: Fassino, Chiamparino, Latorre, Minniti. Sul terreno, vittima sacrificale di fuoco abbastanza «amichevole», il povero Veltroni.

Guai a giocar lento o sporco, Matteo non perdona. Matteo è «svelto, veloce, a Firenze si direbbe che mangia il fumo alle schiacciate», dice Pistelli.

Un uomo di cui fidarsi «finché non cambia le regole del gioco, fa sparire la palla, ti ubriaca di dribbling». Livore per la mancata nomina? Macché, queste cose Pistelli le ha dichiarate (e scritte) nel corso degli anni. Con un unico, inquietante accreditamento: «Sono persona informata dei fatti».

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