Ecco il piano del premier per prendersi anche la Rai

Renzi lavora alla riforma ma potrebbe "accontentarsi" di piazzare fedelissimi nel Cda prossimo alla scadenza. Minzolini: si passa dalla tv dei partiti a quella del governo

Ecco il piano del premier per prendersi anche la Rai

Un decreto per cambiare la Rai. Renzi, dopo averlo tenuto in stand-by per mesi, apre il fronte (di guerra) della tv pubblica, annunciando tempi brevissimi per la sua riforma, da far partire «entro marzo», per «sottrarre la Rai al controllo dei partiti». Ma a far discutere è il metodo indicato dal premier (più presente di tutti i predecessori nell'informazione Rai) come opzione per accorciare l'iter evitando le paludi parlamentari, e cioè un decreto, che per Costituzione è riservato a «casi straordinari di necessità e d'urgenza», difficili da rinvenire in una riforma della Rai. In altri tempi si sarebbero attivati girotondi, raccolte di firme, manifestazioni contro «le mani del governo sul servizio pubblica», per ora a protestare è solo l'opposizione, che chiama il presidente della Repubblica ad un intervento (molti ricordano che Mattarella nel suo discorso d'insediamento ha stigmatizzato l'eccessivo ricorso ai decreti che scavalcano il Parlamento). I tempi sono stretti, ad aprile-maggio scade il Cda della Rai, che può proseguire in prorogatio per qualche mese, per approvare il bilancio arrivando così fino all'estate, non oltre. E un disegno di legge, la via più indicata per una riforma del genere, per essere approvato in meno di sei mesi dovrebbe avere priorità assoluta su tutto il resto, mentre le scadenze di altri provvedimenti sono già segnate sull'affollato calendario parlamentare. Dunque, la strada parlamentare è lastricata di ostacoli. Anche perché quelli che pensano male (e spesso ci azzeccano) sospettano che i frenatori si nascondano nello stesso Pd, prima ancora che negli altri partiti. Il motivo è che gli attuali vertici Rai sono stati disegnati durante la stagione Monti, con due soli consiglieri in quota Pd, per giunta estranei al nuovo corso renziano. Se invece non ci fosse tempo per varare la riforma entro l'estate, il nuovo Cda verrebbe nominato con l'attuale legge, e al Pd spetterebbero tre consiglieri, e poi altri per gli altri partiti, anche uno per il M5S, che ora esprime il presidente della Vigilanza. Insomma persone di fiducia e potere diretto, che non fanno mai schifo.

Sempre che Renzi non vada avanti come un caterpillar con un decreto, e sempre che il Colle dia l'ok (più di una sentenza della Consulta farebbe pensare il contrario). Le linee base di un ipotetico decreto sono nella bozza preparata dal sottosegretario Giacomelli, titolare della pratica Rai (riforma più canone). L'altra è la proposta di legge del piddino Anzaldi, uomo di fiducia di Renzi in Vigilanza. Secondo quel modello la Rai sarebbe controllata da una Fondazione pubblica come «filtro» rispetto agli appetiti dei partiti. Anche qui non mancano i sospettosi. L'ex direttore del Tg1 Augusto Minzolini, senatore Fi, è tra questi: «Renzi vuole passare dalla Rai dei partiti alla Rai del governo, cioè la sua.

E la riforma delle news (elogiata ieri da Padoan, ndr), che riduce a due le testate giornalistiche, va nella stessa direzione, accentrare e controllare tutto». Un timore condiviso, dalla Lega («Vuole il partito unico in Rai») al M5S («Le mani Pd sulla Rai»), fino a Sel e Fdi. La battaglia di viale Mazzini è solo cominciata.

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