Sono rimaste Almaty e Pechino. Due sole città in corsa per ospitare le Olimpiadi invernali del 2022, le altre si sono ritirate. Almaty o Pechino, cioè Kazakistan o Cina. Non esattamente due democrazie liberali. Nello stesso anno i mondiali di calcio saranno in Qatar e quattro anni prima saranno in Russia. I grandi eventi sportivi sono diventati appetibili soltanto a Paesi così, un po' indietro nella classifica delle libertà civili e individuali. Paesi ricchi o comunque con disponibilità sufficienti a organizzare costosissime manifestazioni. Le grandi democrazie sono fuori, o quantomeno lo sembrano (nonostante i prossimi appuntamenti di Rio 2016 e di Tokyo 2020): nella gara per il 2022, Oslo e quindi la Norvegia, si è ritirata qualche giorno fa. Troppo costoso e poco conveniente, troppo rischioso. Perché la storia recente ha insegnato che il lascito dei Giochi o dei mondiali è una voragine nel bilancio cittadino o nazionale, è la quasi totale certezza che gli impianti resteranno inutilizzati: lo stadio di Brasilia costruito per i mondiali appena disputati ha 40mila posti, ma oggi è usato da una squadra che fa 1.500 spettatori di media. Dell'inutilità economica delle grandi manifestazioni sportive si scrive da anni. È una teoria discutibile quanto si vuole, ma diventata quasi dominante. Però in questi giorni un libro sta aggiungendo qualcosa. Si chiama Circus Maximus: the economic gamble behind hosting the Olympics and the World cup . L'ha scritto l'economista americano Andrew Zimbalist. Ne ha parlato l' Economist la settimana scorsa e tra le righe sostiene appunto che in futuro gli unici Paesi che avranno interesse a ospitare mondiali di calcio o Olimpiadi saranno le dittature o le democrazie non compiute o, al massimo, i Paesi in via di sviluppo che - pur con precarie politiche sui diritti civili e le libertà individuali - cercano visibilità.
La storia dice qualcosa, effettivamente: nel Novecento le Olimpiadi non democratiche sono state solo tre, in Germania nazista nel 1936, in Unione Sovietica nel 1980 e in Jugoslavia nel 1984 (invernali). Idem i mondiali: Italia 1934, Brasile 1950 e Argentina 1978. Tre edizioni ciascuno in un secolo. Il Duemila riuscirà a eguagliare il risultato in un quarto del tempo, nonostante la percentuale di Paesi non democratici sia molto diminuita rispetto al secolo precedente.
La tesi di Zimbalist è drammaticamente semplice: siccome il costo economico (e politico) è troppo elevato, i Paesi democratici rinunciano. La grande responsabilità è delle organizzazioni sportive internazionali: nel 1960 il Comitato olimpico internazionale lasciò a Roma il 96 per cento dei proventi dei Giochi, trattenendo per sé il 4 per cento. Nel 2012, il Cio a Londra ha lasciato il 30 per cento, tenendosi il 70 per cento. E questo nonostante i costi per candidarsi, vincere la gara per ospitare i Giochi e poi realizzare le opere siano moltiplicati. Così è praticamente impossibile recuperare la spesa e per quanto il periodo dell'evento trasformi in meglio praticamente ogni città, i risultati sono deludenti anche per il turismo: a Londra sono stati di più i turisti nell'estate del 2011, di quelli dell'estate 2012. Stesso periodo, ma controintuizione logica: invece di essere un'attrazione turistica, i Giochi diventano un deterrente. È un altro dei motivi che ha portato al crollo delle candidature per ospitare i grandi eventi: si è passati da una media di 12 città (o Nazioni) a 5.
Le dittature, i Paesi non democratici e quelli borderline hanno la strada libera: non avendo contropoteri reali possono spendere di più e con più serenità politica. Giochi olimpici e mondiali di calcio sono per loro un investimento in comunicazione.
Visibilità e propaganda: guardate come siamo bravi. Dare il 70 per cento dei ricavi non è un problema, perché l'obiettivo non è né guadagnare, né avere un record o una grande storia da raccontare. Vogliono il centro del palcoscenico, se lo prendono. E lo pagano caro.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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