
A Bologna, patria delle torri, dei portici e soprattutto di una cucina che non conosce compromessi, i tortellini rappresentano un simbolo identitario al pari della stessa città.
Piccoli scrigni di pasta fresca ripieni, la cui ricetta ufficiale è stata depositata nel 1974 dalla Camera di Commercio: lombo di maiale, prosciutto crudo, mortadella, parmigiano, uova e noce moscata. Un dogma, più che una lista di ingredienti.
Eppure, negli ultimi anni, Bologna è stata attraversata da una polemica che non riguarda soltanto il cibo, ma il senso stesso della tradizione: i tortellini halal, ovvero la variante che sostituisce la carne di maiale con pollo o tacchino per venire incontro alle esigenze religiose della comunità musulmana. Un gesto presentato come inclusivo, ma che inevitabilmente ha sollevato perplessità e malumori. Il punto non è vietare varianti o sperimentazioni: la cucina italiana è ricca di contaminazioni, e su questo nessuno discute.
Il nodo è che il tortellino non è un piatto qualsiasi, è un simbolo. Alterarne il ripieno significa snaturarlo, trasformarlo in qualcos’altro che però non può più portare lo stesso nome.
Ed è qui che nasce l’amarezza: se non c’è la mortadella, se manca il prosciutto crudo, allora non stiamo più parlando del tortellino bolognese, ma di un’altra cosa. Per capire l’assurdità, basta ribaltare lo scenario: immaginiamo di presentare in un Paese musulmano un couscous con carne di maiale, o un kebab con pancetta. Sarebbe visto come un affronto, una violazione di un tabù culturale e religioso. Perché allora dovrebbe passare come normale che i nostri piatti simbolo vengano modificati e riproposti con lo stesso nome?
Il rispetto reciproco dovrebbe valere in entrambe le direzioni. Certo, nessuno mette in dubbio che sia bello cercare soluzioni inclusive, ma a patto che non si svuoti di senso ciò che si è tramandato nei secoli. In Italia abbiamo lottato per difendere le denominazioni d’origine, per proteggere il Parmigiano Reggiano o il Prosciutto di Parma da imitazioni e falsi.
Perché allora i tortellini bolognesi, simbolo altrettanto potente, dovrebbero essere ridotti a un concetto elastico, adattabile a ogni esigenza del momento? Il rischio, evidente, è quello di trasformare la tradizione in una caricatura annacquata. È già successo con la carbonara, stravolta all’estero con panna, cipolla e persino pollo, fino a renderla irriconoscibile.
Vogliamo davvero che lo stesso destino tocchi ai tortellini, ridotti a un guscio di pasta ripieno di qualsiasi cosa? La verità è che i tortellini sono parte della nostra identità, e come tali meritano rispetto.
Le varianti possono esistere, nessuno lo nega, ma abbiano il buon senso di chiamarsi in un altro modo. Il tortellino, quello vero, resta uno solo, con la sua mortadella, il suo prosciutto e il suo lombo di maiale. E come tale va difeso, perché in fondo non è soltanto un piatto, ma un pezzo di Italia.