Il Giornale l'aveva scritto e auspicato in tempi non sospetti. E il fatto che ieri Silvio Berlusconi abbia detto ai suoi parlamentari che Antonio Martino sarà il primo nome su cui convergeranno i voti del centro destra, ci riempie di soddisfazione. Oggi e nei prossimi giorni un milione di retroscenisti ci spiegherà la forza o la debolezza di questa candidatura. Per noi Martino non è un candidato di bandiera. È piuttosto la bandiera dei liberali non omologati in Italia. Poco importano le coincidenze e i non detti per i quali il suo nome sembra essere stato scelto. Ciò che conta è che Martino più e meglio di chiunque altro rappresenta il simbolo, la bandiera appunto, di quella che sarebbe dovuta essere la rivoluzione liberale in questo paese (che non c'è stata). Insomma l'idea fondante per la quale era nata nel 1994 Forza Italia. Un ritorno alle origini.
Per un momento conviene dunque sognare. E pensare che al Quirinale possa, per la seconda volta nella sua breve storia repubblicana, tornare un liberale. Le idee di Martino sono rivoluzionarie, molti dei principi classici del liberalismo sono oggi sepolti da una coltre di indifferenza: dal buono scuola al ruolo della moneta, dalle liberalizzazioni ai rapporti di forza con le democrazie in Medio Oriente. Ma il professore (anche se questo non amerà sentirselo dire) resta un conservatore. Delle tradizioni, della Carta costituzionale e financo di quegli accordi europei e monetari, che egli non avrebbe sottoscritto. Come tutti i liberali ha grande rispetto della storia.
Ai tanti che col nasino all'insù avevano giudicato e giudicheranno «maverick» (originale) la candidatura di Martino l'americano bisogna chiedere: quale sistema di relazioni, di omologazione culturale, di letture condivise renderebbe adeguato un candidato al Quirinale. Meglio avere frequentato le Frattocchie o l'università di Chicago? Forse che un signore che per due volte ha fatto il ministro e che viene stimato in numerosi consessi internazionali un economista sopraffino, e ha rapporti con le cancellerie di tutto il mondo ha qualcosa da farsi perdonare? E, soprattutto, quale migliore conoscenza della cosa pubblica (non degli intrighi di corridoio) hanno i suoi concorrenti?
A chi lo ha sentito nelle ultime ore e gli ha chiesto forse un po' banalmente: «Professore come va?» si è sentito dire: «Compatibilmente». Martino è così. È siciliano, è economista, con una vecchia passione per le auto giapponesi, ma soprattutto un grande estimatore di Wodehouse. E sembrano appartenergli quel sottile filo di ironia anglosassone e la capacità di giocare su se stesso; quasi una trasposizione concreta e reale delle freddure di Jeeves. Affaticato, in corsa sull'ennesimo aereo per spiegare al mondo che l'Italia del '94 non era alleata con i fascisti (questo erano ritenuti all'estero Fini & co.) il primo vero riposo se lo prendeva con quella vecchia copia di Wodehouse religiosamente sempre tenuta nella 24 ore.
Ecco, la candidatura di Martino rende onore all'impegno politico del prof, ma fa anche onore a chi l'ha
presentata e a chi la voterà. Sarebbe la prima scelta non convenzionale di una repubblica che a parole vuole cambiare, ma che la sua classe dirigente l'ha sempre e solo pescata nelle due grandi chiese: cattolica e comunista.
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