Roma C'è sempre un prima e un dopo, nella felice parabola di Dario Franceschini, ex democristiano, ex popolare, ex capogruppo, ex segretario del Pd, tra breve ex ministro dei Beni culturali. Non facciano confusione tutti questi «ex», però. Se il destino della legislatura, come quello di Matteo Renzi, sono appesi a un filo, questo filo si chiama Dario Franceschini.
È lui l'azionista di maggioranza, il detentore della golden share renziana. Così com'è lui l'autentico king-maker della candidatura (e quindi dell'elezione) del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. E se l'idea della «responsabilità» si farà strada dentro il Pd, grazie alla moral suasion esercitata da quest'ultimo, sarà anche in virtù di una suasion assai più material: se Franceschini «tradisse» il patto di fiducia che lo lega all'attuale segretario-premier, mettendosi di traverso, per Matteo sarebbe assai dura riuscire a forzare la mano sulle elezioni anticipate. E se ieri le voci prevalenti indicavano un rallentamento dell'irruenza fiorentina, significa che sono in corso iniezioni di bromuro in dosi cavalline. L'infermiera che opera su Renzi è inviata dal Quirinale, ma l'équipe medica si riunisce altrove. D'altronde il ragionamento franceschiniano ai pontieri renziani non fa una grinza: la scadenza della legislatura è alle porte, il tempo aiuterà a ricucire il partito con la sua gente, rischiare troppo non è mai stato nelle corde del Pd. Dulcis in fundo, i 400 deputati e i cento senatori pd sarebbero assai grati e contenti se potessero giungere alla maturazione del vitalizio (settembre 2017) senza essere strappati anzitempo dai seggi. Come dire? Andrebbero poi in giro a raccattar elettori con spirito assai più leggero.
Tanta sagacia e senso istituzionale si deve non solo al folto curriculum vantato dal cinquantasettenne Dario, quanto alle buone frequentazioni che lo hanno nutrito a pane e politica. Figlio di Giorgio, partigiano cattolico e poi deputato dc, s'iscrive alla Dc di Zaccagnini giovanissimo. Si dichiarerà sempre «zaccagniniano», Dario, nonostante la necessità di far carriera nel partito lo porterà a sorbirsi lunghi weekend in Irpinia per abbeverarsi direttamente alla fonte del Verbo, Ciriaco De Mita. Soltanto più tardi, quando lo stellone precipitò, Franceschini si spostò tra i Cristiano sociali, per scegliere infine il rito di Franco Marini, mentore e papà putativo in Parlamento. Avvocato e scrittore non banale di romanzi (non alla Veltroni, per intendersi), viene accusato di aver impallinato lungo la sua già corposa carriera tutti coloro che non fossero «utili e congeniali» alle architetture da lui progettate per il partito e per il governo. La lista è lunga, vede calibri di prima grandezza: Prodi e D'Alema, Veltroni e Bersani, Monti e Letta.
Raccontano per esempio che quest'ultimo, cresciuto al suo fianco dai tempi del Ppi, l'avesse presa particolarmente male: «Ti ho creduto, Dario, quando giuravi che quelle riunioni le facevi per il mio governo. Scopro invece che trattavi per Renzi... Mi hai pugnalato alle spalle!». Ecco: fossimo in Matteo ora, ci chiederemmo chi sta incontrando Dario proprio in queste ore.
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